Lettera Aperta

Per due studentesse di Scienze dell’educazione e della formazione che hanno maturato una determinata esperienza lavorativa e molto vicine al “mondo” della disabilità, il Disturbo dello Spettro dell’ Autismo è un tema tanto importante quanto delicato. Istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’ONU, ogni anno il 2 Aprile ricorre la Giornata Mondiale della Consapevolezza dell’Autismo, e infatti anche ieri a Caltanissetta, in accordo con le norme anti- Covid che non permettono libertà in tal senso, sono andate in scena delle manifestazioni volute dall’ Asp del territorio con il supporto delle associazioni dei genitori, per sensibilizzare la cittadinanza a mettere il focus sui diritti e la realtà che vivono le persone autistiche e le loro famiglie, che però con il disturbo convivono h24 e 365 giorni all’anno.

La fase storica che stiamo vivendo inoltre, ha indubbiamente amplificato determinate criticità, generando una serie di problematiche che tutti coloro che se ne occupano hanno cercato di ridimensionare con gli strumenti possibili, date anche le restrizioni, ma non è stato e non è tutt’ora semplice.  Erroneamente quando si pensa all’autismo, si pensa ad un individuo che tende all’isolamento, che non riesce a guardare l’altro negli occhi o con tutta una serie di stereotipie ( esempio classico: lo sfarfallio delle mani), ma è molto più di questo. Lo stesso termine “spettro” ci deve portare a pensare ad un’ estrema variabilità che va dal ritardo mentale grave ad intelligenze anche sopra la media. Il DSM ( manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) infatti , ci parla di “livelli di supporto” di cui la persona ha bisogno, ed è questo che differenzia i casi, non tanto il livello cognitivo. Poi è chiaro, è possibile rintracciare dei tratti in comune, come un deficit nelle interazioni sociali, comportamenti o interessi ristretti e stereotipati o ancora un’aderenza eccessiva alle routine quotidiane,sovraccarico sensoriale, nonché i “famosi”, per chi è del mestiere o conosce questo mondo, “comportamenti problema”, che esprimono o per un bisogno o per autoregolarsi. Bisogna sfatare anche una falsa credenza, ovvero quella che vedrebbe la persona autistica come priva di emozioni. Non è così. E questo è molto evidente negli ambienti in cui ci si prende cura di loro.

Quando si lavora con loro o si interviene in qualche modo, tutti partiamo da un assunto. Dall’autismo non si guarisce, questo si sa. Quello che si può fare è contribuire a far loro raggiungere la qualità di vita più elevata possibile. In che modo? Oggi è assodato che l’optimum in tal senso sia un tipo di approccio globale, non solo tra vari professionisti con le equipe multidisciplinari ma anche tra i modelli d’intervento oggi vigenti, al fine di costruire un progetto ad hoc, specifico, su ogni persona. Ne esistono tanti. Solo per citarne alcuni abbiamo: quello comportamentale ( modello A.b.a per esempio), il Modello Teachh ( che con insegnamenti strutturati e semi strutturati punta alle abilità sociali), la Comunicazione aumentativa alternativa o l’ Early Start Denver Model per gli interventi in età precoce, soprattutto sulle abilità comunicative e di interazione sociale . Chi lavora nel terzo settore, nei centri diurni per esempio, sa benissimo che  un intervento per essere efficace non può essere strutturato in modo poco organico, ma deve intanto  necessariamente partire da un approccio che punti a determinare gli interessi specifici di una persona, seguendo quindi la sua “iniziativa”, e da questi elementi partire con la realizzazione di un mondo condiviso. Così facendo e “costruendo” di conseguenza un piano riabilitativo, questi fattori si configureranno come motore dell’apprendimento.  Lavoro dal quale la famiglia non può essere esclusa. Questi bambini, naturalmente poi cresceranno, e con loro anche le preoccupazioni dei genitori, ma fortunatamente, è possibile lavorare efficacemente anche con fasce d’età più elevate, anche se le tappe dello sviluppo incideranno in maniera diversa. Oltre ai modelli d’intervento, vi saranno altre attività che andranno dalla terapia occupazionale all’orto terapia, fino all’arte terapia.

Ma come approcciarci all’autismo nel percorso scolastico? Gli insegnanti di sostegno oggi hanno un titolo di specializzazione polivalente che non comprende un percorso di studi specifico per il trattamento dell’autismo. Spesso ci si appella alla loro buona volontà, ma questo non basta. È necessario che si lavori in “sinergia dialogica” con i genitori e i terapisti. Essendo disturbi in misura variabile ne deriva che l’alunno standard non esiste e dunque non è possibile realizzare il profilo di “alunno tipo”. La diversità non deve essere vista come problematicità ma come riconoscimento delle specifiche risorse possedute. La scuola che accoglie un bambino o un ragazzo autistico deve fornirgli sostegno adeguato e costruire un PEI, il Piano Educativo Individuale, con la collaborazione della famiglia, delle figure specializzate di riferimento, in genere il neuropsichiatra infantile, e dei terapisti che lo seguono nelle attività di riabilitazione. Il PEI è un documento essenziale in quanto in esso devono essere indicate tutte le iniziative e gli strumenti utili all’apprendimento, compresi gli strumenti tecnologici e informatici: computer, tecnologie audio e video e software che aiutano lo studente a creare, immagazzinare e scambiare informazioni per imparare. Inoltre è di fondamentale importanza intervenire sul “Setting pedagogico”, ovvero l’ambiente che struttura relazioni educative organizzate e significative. L’unico scopo è promuovere l’alunno. Oggi parliamo ormai di inclusione scolastica, processo che permette il capovolgimento totale della prospettiva in cui non è l’alunno a doversi adattare alle richieste o alle offerte della scuola, ma il contrario. In virtù di questo, oggi troviamo a scuola non solo la presenza dell’insegnante di sostegno ma la famiglia può anche richiedere l’ASACOM, l’Assistente all’Autonomia e alla Comunicazione, che in un lavoro di rete  con i docenti promuove lo sviluppo e l’apprendimento del bambino, oltre a renderlo più autonomo possibile usando tecniche come l’ABA e il TEACCH. Quello che è certo, è che un disturbo così complesso, richiede un approccio altrettanto complesso e che racchiuda sempre nuove prospettive e competenze.

Jessica Napoli

Cristina Maria Marchese