di Luca Spilla
Arrivo a Trapani per il tramonto, la città è rosa e aperta a un respiro profondo verso quel mare sconfinato.
Suggestioni dell’attesa probabilmente.
Salgo sul traghetto, è già buio. La traversata, a ripensarla dopo tre anni è una buona metafora del porto di destinazione: una forza prorompente sotto di te potrebbe sbriciolare quelle spesse paratie in acciaio come scorze di cannolo. Eppure non lo fa, ti culla verso una nuova alba. Al mattino, il sole appare alla destra dell’isola di Pantelleria.
Tutto, compresa l’auto con la quale ti muovi lungo quelle strade strettissime, vive di equilibri emozionanti.
Inizio ad esplorare l’isola scendendo sulla strada perimetrale verso sud, mi muovo sul versante che guarda la Tunisia verso il borgo di Scauri. Seguendo venti e istinto, mi muovo sulla circonferenza ed esploro il centro attraverso vari raggi. Rekhale, Punta dell’arena, Arco dell’elefante, Punta spadillo, le Ondine, Buccaram, Venere, Nikà, Benikulà.
Ci si muove, perimetralmente o radialmente, nel contrasto: La terra è dura, densa di pietre ma vi esplode la vita. Gli sbuffi sulfurei la nutrono e la riscaldano. Il vento piega la vegetazione ma la rifornisce di sali. Si vive al centro di un mare che come un deserto ti allontana dal mondo ma che con i suoi frutti ti sfama. Le amniotiche acque smeraldo sono collegate attraverso sentieri impervi, immergervisi riempie di gioia.
La notte ho visto tutte le stelle.
Il rapporto tra l’uomo e la natura è di interdipendenza e ogni gesto scomposto è presto riassorbito in quella violenta poesia che il mare canta da millenni ai dammusi coperti di táiu e ai terrazzamenti.
E’ per questo stato di sospensione che Pantelleria è come una traversata notturna.
E una volta tornato nel continente sulla sinistra ho intravisto un’ alba.
Resoconto fotografico di Pantelleria di Luca Spilla
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