di Ivan Ariosto

«Oltraggioso», «orribile», «completamente inutile», «perverso», «sgradevole in modo gratuito». Questi sono solo alcuni degli aggettivi usati dai lettori del New Yorker, che il 26 giugno 1948 furono sconvolti da un breve racconto pubblicato da una sconosciuta autrice di nome Shirley Jackson sulle colonne del quotidiano. 

La maggior parte di loro chiese una spiegazione alla redazione del giornale sul significato della storia, alcuni insultarono la Jackson, altri chiesero addirittura la cancellazione del loro abbonamento alla rivista.

Eppure l’innocente incipit del piccolo romanzo recita: “La mattina del 27 giugno era limpida e assolata, con un bel caldo da piena estate; i fiori sbocciavano a profusione e l’erba era di un verde smagliante”.  Una quieta normalità – quella descritta – che accentua ancor di più il senso di straniamento del lettore, il quale vede dipanarsi una vicenda paradossale, che sembra avere molto poco di inventato.

In effetti, cosa potrà esserci di così sconvolgente in una lotteria che, da anni, gli abitanti di un piccolo paese agricolo organizzano con tanta gioia e a cui partecipano tutti, bambini compresi? È facile immaginare come nemmeno il lettore più avveduto possa essere capace di indovinare quale premio viene riservato a colui che estrae, tra i tanti fogliettini del sorteggio, quello su cui è disegnato un punto nero.

Attingendo dalla grande tradizione del romanzo gotico anglosassone e sfruttando gli incubi ancestrali degli uomini, l’autrice costruisce un perfetto meccanismo di suspense e straniamento, che sfocia in un epilogo dai contorni kafkiani.

Oggi, “La Lotteria” torna nelle librerie in una veste nuova, quella della graphic novel (edita da Adelphi, pp. 142, €. 19,00), con una particolarità in più che la rende unica: infatti, il disegnatore Miles Hyman non è altro che il nipote della stessa Shirley Jackson, nonché noto illustratore le cui opere sono state esposte in molti musei del mondo tra cui il Palais de Tokyo, la Fondazione Glénat e il Museo dell’illustrazione a Moulins. 

Hyman è maestro nel riprodurre, coi suoi disegni, il racconto della nonna, rappresentando lo stesso “pathos” e lo stesso clima di orrore crescente che lentamente si fa avanti nell’idilliaca atmosfera di campagna tipica del New England.

Come in Kafka, anche qui l’umanità è descritta come schiacciata dal peso della tradizione e dell’autorità, che con la forza data dalla sua ripetizione costante nel tempo fa apparire “normale” anche ciò che è in realtà brutale ed inumano. 

Così, un rituale che si ripete da secoli e che è approvato dall’autorità del villaggio, seppur macabro, diviene parte integrante della “forma mentis” degli abitanti, viene da loro accettato come bagaglio della loro cultura. Traspare, tra le righe di questa storia paradossale, la tendenza dell’uomo comune ad appiattirsi sulla regola che gli viene imposta, giusta o ingiusta che sia.

Anche a distanza di settant’anni, il racconto di Shirley Jackson ci mostra come l’orrore sia un nostro quotidiano compagno, e come quella “normalità” tanto ricercata da ogni uomo abbia in sé una percentuale di violenza, che finisce per diventare tuttavia “ordinaria” e, dunque, non più fonte di scandalo.