di Carmelo Sostegno

Il 26 novembre ne succedeva un’altra, in Italia. Ne leggevo di prima mattina nel silenzio del caffè, e poi per giorni tra i tavoli e nell’aria stretta dai colletti alla francese per accennate, timide cravatte. I quotidiani del giorno, se ricordate, ridondavano tutti dell’intervento della Guardia di Finanza che, in un solo giorno, procedeva a circa 20 perquisizioni nei confronti di alcuni imprenditori italiani legati all’ex presidente della Fondazione Open. Secondo la Procura di Firenze, dunque, la fondazione in questione, nata per sostenere l’ascesa politica di Renzi, avrebbe permesso a diversi imprenditori e professionisti di commettere gravi reati come quello di falso in bilancio, riciclaggio, auto riciclaggio, finanziamento illecito ai partiti, e ancora.
Ma non finisce qui, perché c’è un’altra mattina, sempre di carta e cornetti, ed è quella del 29 novembre, giorno in cui si ritornava all’attacco: i giornali e le trasmissioni del Paese raccontavano di un fascicolo contro ignoti aperto sempre dalla Procura di Firenze e riguardante le operazioni poste in essere da Renzi per l’acquisto di una prestigiosa villa. In poche e altre parole, Renzi si sarebbe fatto prestare, per scrittura privata, una somma tra i 400 e i 700 mila euro da un amico che, a detta dei giornali, sarebbe stato un finanziatore della Open, nonché membro del Cda di Cassa depositi e prestiti durante il governo retto dal Pd nel 2015.


Bene. Due fatti paralleli e diversi, dal sapore dello scandalo pubblico, e ai quali ha fatto seguito un acceso discorso di Renzi al Senato; un discorso che il senatore di IV lasciava sfogare coi toni della requisitoria, nonché della vittimizzazione secondaria, sigillando, ancora una volta, un concetto di cui ormai s’è detto assai: è follia che una persona debba essere processata prima che un dibattimento venga dichiarato aperto, prima che un giudice deliberi definitivamente.
Se da un lato, l’assunto appena citato è pienamente condivisibile, come altrimenti?, il resto sarebbe tutto da riscrivere. Quello di Renzi avrebbe potuto essere un attacco sincero a un problema serio che da tempo cagiona danni inimmaginabili alla vita di tutti i cittadini, noti e non noti, e invece si è palesato in un attacco mancato, per bersaglio sbagliato, finendo per usare impropriamente il Senato per abbozzare goffe, plateali delegittimazioni della magistratura. C’era quel tipico “non so ché” di anticasta di cui R. si è già servito altre volte in passato e che, a mio modo di vedere, è uno dei primi fattori che concorre al rafforzamento della gogna-mediatica-giustizialista che affligge il Paese tutto. Insomma: un boomerang che gli ritorna.


Se in Italia, il sospetto del crimine e la giustizia anticipata sono sempre sulla punta della lingua, la causa non è certo l’operato della magistratura – l’obbligatorietà dell’azione penale è prevista in questo Paese per tutta una serie di ragioni di giustizia: ci sono le ragioni della vittima, dello Stato, ma anche quelle dell’imputato, e meno male.
Si potrebbe convenire che una delle cause del giustizialismo sia da individuare nella fuga di notizie concernenti atti di indagine. Ma anche qui: molto spesso è difficile dire che si tratti di una vera e propria fuga. Quando viene posta in essere una perquisizione, ad esempio, non ne sono a conoscenza soltanto i magistrati o gli operatori della polizia giudiziaria, c’è l’indagato, ovviamente, ma anche l’avvocato e, nel caso in cui si tratti di una persona particolarmente nota, a venirne a conoscenza sono quanti orbitano attorno a lui, e solitamente sono tantissimi.


La causa più evidente, e che appunto doveva essere affrontata attraverso toni istituzionali più composti, si sostanzia invece nell’insopportabile condotta della stampa, assai più intrisa di correnti politiche della stessa magistratura, e che sempre più spesso finisce per trasformare le garanzie del sistema giudiziario in coltelli affilati. Nel caso di specie, c’entra poco la magistratura; c’entra, più che altro, un deficit evidentemente culturale, che s’alimenta di articoli di giornale dal sapore di scoop, e di continue, eccessive sproporzioni tra il clamore dato a un’informazione di garanzia e il silenzio sulle sentenze di piena assoluzione.
Quando una società civile monitora l’operato della giustizia lo fa soprattutto al fine di meglio ponderare le valutazioni concernenti le scelte della politica e l’opportunità che le sottende; lo fa per riempire o svuotare il contenuto della questione morale, perché è innegabile che i termini morali di una società cambino col passare del tempo e per questo vadano monitorati; ma tutto ciò va fatto sulla base di affidabili e solide documentazioni, famosa lettura delle carte, e va fatto quando i processi iniziano, non quando ancora nemmeno sono, vagamente istruiti. Invece, quello che si verifica in Italia, non sempre ma quasi, sembra privo di precauzione, sembra avere il sapore della sbronza che sopperisce alla noia.


Tempo fa, Emile Zola, in occasione dell’Affaire Dreyfus, ebbe a scrivere qualcosa sui romanzieri, ma, per analogia, penso che la frase possa riferirsi anche ai giornalisti. I giornalisti (chiamali intellettuali se vuoi), al pari dei romanzieri, sono “giudici istruttori degli uomini e delle loro passioni”. L’affaire Dreyfus, caso in cui un ufficiale alsaziano di origine ebraica veniva accusato di alto tradimento, accusato senza prove, senza contraddittorio, con gli unici termini che solo la crudeltà dell’antisemitismo riusciva a vomitare, certo non è paragonabile. Non c’è alcun 13 gennaio 1898 che sappia de “L’aurore”, nel Caso Open. Le ingiustizie sono atroci e tali se sanciscono l’emersione di una tutta una drammaticità sincera. Tuttavia, esso è pur sempre un caso, un affaire, e come ebbe a introdurre Massimo Sestili ne “L’élite e la politica. Emile Zola e l’affaire Dreyfus”, riprendendo le riflessioni di Julieen Brenda – La trahison des clerc, ecco, gli affari sempre “diventano spigoloso crocevia di una libertà necessitata dall’urgenza di dover scoprire chi siamo”. Per ciò, in questo caso chi siamo?
È nei discorsi di questo tipo che si evincono gli schieramenti di un Paese. E in Italia, dalle posizioni assunte, emerge la solita bellicosità istituzionale che fa male, sempre male, il vizio di ridurre le colpe a pochi, laddove queste, va detto, sono sempre diffuse. Dopodiché, 13.01.1898, E. Zola: “è un crimine fuorviare l’opinione pubblica e utilizzarla per un bisogno di morte, opinione che si è riusciti a pervertire fino al delirio. È un crimine amareggiare i piccoli e gli umili, esasperare le passioni di reazione e di intolleranza riparandosi dietro l’odioso antisemitismo, l’uomo morrà se non ne guarirà in fretta. È un crimine sfruttare il patriottismo per diffondere l’odio, ed è un crimine infine fare della sciabola il Dio moderno, mentre tutta la scienza umana è al lavoro per l’opera prossima di verità e di giustizia”.