di Ivan Ariosto
Da ieri, Marta Cartabia è il nuovo presidente della Corte Costituzionale.
Sarà una tra i più giovani presidenti e, soprattutto, sarà la prima donna a ricoprire il ruolo apicale in seno alla Consulta.
Sebbene quest’ultimo punto costituisca certamente una novità rilevante, l’elezione della Cartabia non può soltanto essere “ridotta” a simbolo della parità di genere.
È la vittoria di quella meritocrazia tanto mortificata nel nostro Paese, che sempre più spesso antepone la rilevanza degli intrecci relazionali con determinati ambiti alle qualità umane e professionali.
Oltre ad essere docente di diritto costituzionale all’Università Milano-Bicocca, infatti, Marta Cartabia è stata una delle prime ad interrogarsi sulle possibili interazioni tra gli assetti costituzionali nazionali e le norme del diritto europeo. Uno studio che ebbe inizio ancora prima della nascita vera e propria dell’Unione Europea così come la conosciamo oggi; già nel 1987, il titolo della sua tesi di laurea (con relatore il costituzionalista Valerio Onida, più tardi anche lui presidente della Consulta) era: “Esiste un diritto costituzionale europeo?”.
Da sempre attenta all’evoluzione dei diritti fondamentali della persona umana, la Cartabia è un’eccellenza italiana nel campo del diritto costituzionale comparato, nonché autrice di numerosi saggi relativi ai rapporti tra giustizia e morale (da ultimo, “Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone e Creonte” scritto a quattro mani con Luciano Violante).
Nonostante i suoi meriti scientifici, nazionali ed internazionali (dal 2013 prende parte annualmente al seminario Global Constitutionalism organizzato dalla Law School di Yale), però, la notizia della sua elezione è stata accolta in modo piuttosto spicciolo dai mezzi di informazione italiani, che si sono limitati a porre l’accento esclusivamente sul fatto che la Cartabia sia una donna e che sia stata vicina ad ambienti di Comunione e Liberazione (qualcuno ha anche fatto cenno a delle sue fantomatiche prese di posizione antigay…). Ridurre la sua nomina unicamente a questi due aspetti, è la conferma della miseria intellettuale in cui versa il nostro Paese, che i mezzi di informazione di certo non contribuiscono ad alleviare.
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