Giorni 6 – 8 Sarajevo

L’autobus sarebbe dovuto partire alle 23.18 da Maribor. Sarebbe. L’app di Flixbus mi informa che si è accumulata un’ora e mezza di ritardo. Attendo fino alle 2.00 in una stazione fredda e semideserta. Niente, mi arrendo. Con un vago senso di frustrazione mi dirigo verso un albergo in centro città e prenoto una stanza per la notte. Il giorno successivo la partenza è prevista per le 12.18. Alle 13.00 sono ancora alla stazione di Maribor impegnato ad imprecare contro un numero indefinito di divinità. Finalmente appare l’autobus e non è un miraggio.

Il viaggio è lungo, circa dieci ore. Mi accorgo subito che i bosniaci non sono uguali agli altri. Ad esempio, davanti a me è seduto un tappeto che scenderà in una stazione di servizio vicina a Sarajevo. L’ingresso in Bosnia è di per sé un’esperienza. Mi aspetterei di trovare la bandiera blu con il triangolo giallo e le stelle in diagonale. Niente di tutto questo. Mi trovo davanti ad una enorme bandiera che somiglia molto a quella serba con sotto una scritta: “Welcome to Brod – Republika Srpska”. Ci tornerò. Restiamo fermi un’oretta a causa di una galleria lunga circa un chilometro con una sola corsia. Una ragazza mi chiede una sigaretta e mi spiega che è un ingegnere civile costretta a emigrare in Austria perché in Bosnia non c’è lavoro per lei.

Verso le 23.00 raggiungo l’ostello. Vengo accolto da una ragazza polacca con una rakjia di benvenuto e un invito ad uscire con gli altri viaggiatori. Tra loro c’è anche Giorgio, un batterista di Piana degli Albanesi con cui abbiamo amici in comune. Sono stanchissimo ma allo stesso tempo piacevolmente sorpreso dall’aria che si respira. Decido di unirmi al gruppo. Andiamo in un locale surreale e stracolmo di gente. Una band locale suona dal vivo musica balcanica in mezzo ad una coltre di fumatori incalliti. Ragazze musulmane si muovono a ritmo di musica rock con il velo che avvolge il viso. C’è troppa confusione e decidiamo di andare a bere qualcosa nella stanza adiacente. Rientriamo in ostello a notte fonda. Penso che l’indomani sarà una giornata impegnativa.

L’impatto con il centro storico della città lascia a bocca aperta. Tra i vicoli si respira l’odore intenso del caffè bosniaco e di carne arrostita. Le locande hanno il tetto molto basso e lasciano intravedere le imponenti moschee della città. Il palazzo del municipio è una meraviglia in stile arabo. A distanza di soli 500 metri si trova il ponte dove Gavilio Princip uccise Francesco Ferdinando scatenando il primo conflitto mondiale. Vado a visitare il Museo dei crimini contro l’umanità. Quello che è accaduto in Bosnia tra il 1992 e il 1995 è davvero orribile. Le storie narrate dal museo mi lasciano un senso di profonda inquietudine.

Per il pomeriggio ho prenotato un tour guidato della città. Un ragazzo giovane di nome Edin ci farà da Cicerone. È molto bravo e ci riassume gli ultimi 70 anni di storia nel tragitto che porta dal centro città al “Tunnel della Speranza”. Poco dopo la dichiarazione di indipendenza, Sarajevo è stata circondata da nazionalisti serbi, sotto l’egida di Slobodan Milosevic, con l’obiettivo di creare una nuova nazione, la “Grande Serbia”, finalmente libera dagli odiati turchi che avevano invaso la Bosnia 800 anni fa. Furono tagliate le linee di comunicazione, l’elettricità e i rifornimenti di cibo. In città la gente moriva letteralmente di fame. Soltanto grazie ad un tunnel sotterraneo, scavato a velocità record, Sarajevo riuscì ad avere il cibo, le informazioni e le armi per resistere contro l’avanzata del nemico. Quando la città fu sequestrata, Edin si trovava nella pancia di sua madre. Suo padre ha attraversato oltre 300 volte quel tunnel per permettere la nascita di Edin e la sopravvivenza di sua moglie. La guerra terminò nel 1995 con l’accordo di Dayton (in realtà finì 3 mesi dopo, quando la NATO fu costretta a bombardare i nazionalisti serbi che continuavano a sparare sui civili). La Bosnia è divisa in dieci cantoni la maggioranza dei quali è controllata dalla Republika Srpska e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Anche Sarajevo è divisa in due. Edin ci spiega che a Sarajevo Est vivono ancora i nazionalisti serbi che sparavano dalle colline sui civili inermi. L’atmosfera è tutt’altro che distesa. Le persone continuano a votare per i tre partiti nazionalisti (bosniaco-arabo, serbo e croato) che esistevano prima del conflitto. La Bosnia ha tre presidenti diversi che devono trovare ogni volta un accordo unanime per prendere qualsiasi decisione.

La sera ceno con Kyle, un ragazzo metà olandese e metà scozzese che sta facendo un’esperienza molto simile alla mia. Parliamo un po’ dei motivi che ci hanno spinto a partire davanti a dei favolosi Cevapcici e a una birra locale. Torno in ostello stremato da una giornata intensa ed emozionante.

Passo la mattina seguente ad esplorare Sarajevo. Il caffè bosniaco ha un sapore unico, molto più forte del nostro amato espresso. Pranzo in un locale che fa degli ottimi Burek. Le case appena fuori dal centro città hanno ancora i segni della guerra. Finestre spaccate, mura rovinate dai proiettili. Decido di far rotta verso Belgrado. Lo stesso tragitto che 25 anni fa ha portato morte e distruzione nella Gerusalemme d’Europa. Il sole sorge ad Est ma da queste parti sembra che l’alba tardi ad arrivare.

Alessio Amorelli, Diario di bordo