Di Leonardo Pastorello
Nel 1940, Walter Benjamin (1892 – 1940) scrisse le sue ”Thesen über Geschichte” (”Tesi sulla storia”), che, oltre ad essere una critica alla socialdemocrazia, furono anche una reazione al patto nazi-sovietico del 1939. In queste sue tesi, Benjamin tentò di avviare una giustificazione metafisica del materialismo storico, debitore alla teologia. Traendo ispirazione da ”Il giocatore di scacchi di Maelzel” di Edgar Allan Poe, Benjamin espone la tesi secondo cui la teologia dev’essere la forza motrice del materialismo storico, al fine di debellare il capitalismo. Benjamin immagina un tavolo, su cui c’è una scacchiera, a cui è seduto un automa in grado di rispondere alle mosse dell’avversario con una contromossa sempre vincente. L’automa, però, è mosso da un nano nascosto sotto il tavolo. Per Benjamin, il materialismo storico è un fantoccio che sarebbe vincente nel caso in cui esso prenda al suo servizio la teologia, «che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e per di più non deve lasciarsi scorgere da nessuno». In questa partita decisiva della storia, la teologia rende invincibile il materialismo storico, poiché quest’ultimo, se fosse abbandonato a se stesso, diventerebbe un meccanismo privo di qualunque forma di raggiungimento di riscatto del genere umano. Il materialismo storico permette un cambiamento qualitativo e l’errore della socialdemocrazia consiste nell’esser complice della storia dei vincitori, ossia dei capitalisti, che strumentalizzano l’ideologia di progresso promettendo la felicità. Il progresso, in quanto ragione del fallimento della socialdemocrazia, si traduce, dunque, in una mera rassegnazione nei confronti del tempo. La storia è sempre teatro di antagonismi (conflitti di classe) fra le forze oscure del male e le forze luminose del bene. Il messianismo, a differenza del progresso, parla di eskhaton, ossia ciò che dà novità. Dove il pensiero capitalista parla di miglioramento delle condizioni mondane, il pensiero messianico parla di un momento in cui la storia viene spezzata, al fine di permettere una ricomposizione su un altro piano. Per Benjamin, il messianismo presenta il suo carattere salvifico oppositore alla sofferenza umana, nella condizione in cui sia possibile pensare a un salto qualitativo che stravolga il tempo e che faccia accedere a qualcosa di radicalmente diverso. Non è casuale, dunque, la chiamata in causa della teologia, poiché essa, considerata nel suo aspetto messianico, a differenza dell’economia, riesce a dare una svolta qualitativa, anziché quantitativa. Dopo la fiducia incondizionata nel marxismo dei primi anni Trenta, Benjamin recupera il messianismo apocalittico della teologia. Il compito dello storico è quello di assumersi una precisa responsabilità etica, prima ancora che politica, ed è sulla base della decisione presa che si giocano il presente e il futuro del materialismo storico e della rivoluzione. L’uomo, dunque, dev’essere capace di cogliere il kairos, ossia l’attimo propizio che possa spezzare la storia. Per Benjamin, è inaccettabile parlare di progresso davanti alle macerie del passato. Così scriveva, commentando il celebre acquerello di Paul Klee, Angelus Novus (1920):
C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. […] Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte ch’egli non può più chiuderle. […] Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta.
L’angelo di Klee rappresenta l’immagine dell’umanità: quest’ultima è da sempre sacrificata su un banco da macello, ma affinché ci siano minori sofferenze, bisogna innanzitutto rivoluzionare il modo in cui guardare la storia; l’angelo personale di Benjamin volge lo sguardo verso il passato, ma da esso se ne allontana volgendo le spalle al futuro, sospinto da una bufera che viene dal paradiso. Questa bufera è, per l’appunto, il progresso. Il primo atto rivoluzionario suggerito da Benjamin è guardare la storia dal punto di vista degli oppressi per costruire il progetto umano di salvezza, ma ciò che è ancora più ambizioso è il saper cogliere tutti quegli attimi decisivi per cambiare le aspettative umane. Il materialismo storico, per vincere la partita, deve necessariamente animarsi chiamando in causa una prospettiva messianica sulla storia, poiché solo in questo modo il marxismo può prendere un concetto di felicità non parziale, non legato ideologicamente al capitalismo, bensì legato alla redenzione. Va anche sottolineato che, per Dio, la redenzione non può essere vista come il tèlos della storia mondana. Il dinamismo della storia non può estendersi a tal punto da includere nella sua distensione quel tèlos che è di carattere meta-mondano, chiamato appunto Regno di Dio o redenzione.
Ma l’interrogativo permanente è: come si può essere felici davanti agli orrori del passato? Rispondere è davvero difficile, soprattutto quando si è coscienti dell’impossibilità di giustificare le macerie della storia, che non acquisiscono una vera e propria dignità per via degli effetti che hanno causato. Ma cosa può farci vivere nella redenzione? Cosa può realmente salvarci? L’oblio? Non di certo. L’unica redenzione possibile è offerta dalla memoria, in quanto strumento che testimonia l’insensatezza delle sconfitte degli oppressi. Per mezzo della memoria si può rompere la storia dei vincitori, aprendo nuovi orizzonti verso le possibilità non ancora date. Tuttavia, la strumentalizzazione della memoria rappresenta ancora oggi un serio problema da non trascurare. Se prendessimo in considerazione il 9 maggio 1978, data nota per la l’assassinio di Aldo Moro e di Peppino Impastato, ricorderemmo che, fino a qualche anno fa, si faticava a rendere noto il nome di Peppino, poiché egli rappresentò l’ostilità militante nei confronti della mafia, della Democrazia Cristiana e dello Stato. Si cercava, dunque, di porre il suo nome nell’oscurità dell’oblio collettivo. Non fu casuale la falsificazione storica della sua morte che, secondo la versione dei media e dello Stato, era dovuta a un suicidio. Sarebbero leciti, dunque, questi interrogativi: a quale memoria faceva riferimento Benjamin? Cosa intendiamo oggi per memoria? E come possiamo salvarci se la memoria è un campo di battaglia i cui contendenti lottano per la conquista del passato?
La storia mondana insegna che la memoria è un’arma a doppio taglio: si ricorda per non ricadere nell’errore, si ricorda per dimenticare. Abbiamo bisogno di una memoria ospitale, capace di ascoltare le ragioni degli altri. Bisogna evitare le interpretazioni di qualsiasi evento storico con occhi di parte. Citando Remo Bodei:
Per gli Americani il 7 dicembre del 1941, bombardamento e attacco contro Pearl Harbour, è chiamato il Giorno della Vergogna, ma gli Americani non chiamano nello stesso modo il 6 agosto e il 9 agosto del 1945, quando venne bombardata Hiroshima e Nagasaki. E quindi il problema di porsi, da un punto di vista storico, come dire, il più possibile oggettivo, che non vuol dire che esista una posizione sopra le parti, ma che tenga conto dei diversi punti di vista e di certe realtà che non si possono negare.
Per quanto riguarda la prospettiva messianica della storia, le tesi di Benjamin affascinano molto; l’invito di prendere in considerazione la tradizione degli oppressi sarebbe utile per la società di oggi, ma questa utilità si realizza, a mio parere, a condizione che finiscano le invidie fra chi si sente oppresso. Facendo riferimento all’Italia, le cronache recenti ci dimostrano gli effetti drammatici della squallida retorica politica, la quale alimenta i conflitti e le ostilità fra le varie identità culturali del nostro Paese, generando una mera guerra fra poveri. Di fronte allo sviluppo incessante di una società fluida si chiedono diritti, chiamando in causa la propria identità, accentuando la priorità degli italiani sugli immigrati. In questo caso, l’esercizio della memoria potrebbe essere un’arma efficace per debellare qualsiasi divergenza fra le culture, a condizione che la nostra facoltà mnenomica riconosca gli abusi del mondo occidentale e della cultura eurocentrica nei confronti dell’alterità del cosiddetto ”Terzo Mondo”. A questo punto, mi è spontaneo dichiarare la mia accoglienza della tesi benjamiana, secondo cui la tradizione storica degli oppressi rappresenta un valido punto di partenza per riscattare l’uomo, ma ciò deve compiersi anche ponendo fine a qualsiasi accanimento della memoria, in quanto accanimento identitario.
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