di Ivan Ariosto

Il 23 agosto 1973, Jan-Erik Olsson, dopo essere evaso dal penitenziario di Stoccolma, tentò una rapina in una banca e prese in ostaggio, per più di 5 giorni, alcuni impiegati. Nonostante la traumatica esperienza, i sequestrati svilupparono un forte sentimento di gratitudine ed ammirazione verso il loro rapitore, che li portò addirittura a tenere condotte reticenti nei successivi interrogatori della Polizia. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori nei confronti – non della Polizia che li aveva liberati – bensì del sequestratore, perché non li aveva uccisi: avevano contratto una vera e propria patologia, la cosiddetta “sindrome di Stoccolma”.

E allora se è vero che “si pensa solo per immagini”, come scrisse il filosofo dell’assurdo Albert Camus, diventa facile immaginare Luigi Di Maio, con una corda stretta tra i polsi e le caviglie, guardare negli occhi il proprio aguzzino Matteo Salvini e scorgere in lui il fascino del “capo”, la rappresentazione plastica di ciò che avrebbe voluto diventare.

Così come accadde in quella banca svedese negli anni ‘70, dunque, anche oggi – nelle sfarzose sale di Palazzo Chigi – ci troviamo di fronte ad una vera e propria “sindrome di Stoccolma” che attanaglia l’attuale Ministro del Lavoro, sempre più paralizzato dinanzi all’avanzare dell’esercito del “Capitano”.

Non può spiegarsi altrimenti – se non, appunto, in termini patologici – come l’attuale leader del Movimento 5 stelle abbia potuto ritrovarsi, di fatto, all’opposizione (la vicenda TAV di ieri lo ribadisce) pur avendo ottenuto il 33% dei consensi nell’ultima tornata elettorale. Ma quella di ieri sulla TAV non è che l’ultima auto-umiliazione che la compagine (ex)grillina si è inflitta, dopo aver evitato un processo a Salvini, approvato i due Decreti-Sicurezza, dopo aver fatto spallucce davanti alla scioccante proposta leghista di “sospendere” (o addirittura abolire) il Codice degli appalti, e aver fatto finta di non vedere quanto evidenti fossero i legami con la Russia di Putin.

Come può spiegarsi in modo diverso il fatto che Salvini sia – nella sostanza (e forse anche nella forma data l’assoluta irrilevanza del premier Conte) – il presidente del Consiglio in un Governo che lo vedeva, in origine, stampella necessaria per avviare finalmente quel “cambiamento” tanto sbandierato da Grillo & co.?

Probabilmente, un normale “uomo politico” avrebbe annusato il fallimento dell’esperimento giallo-verde prima che fosse così evidente come lo è oggi, e ne avrebbe impedito la prosecuzione, preparandosi a ri-dare il meglio di sé nella successiva campagna elettorale. E invece no.

Luigi Di Maio ha consentito che Salvini divorasse, morso dopo morso, tutto il consenso racimolato dal M5S in questi anni – quel consenso che lo aveva portato a vincere la “faida interna” con Alessandro Di Battista (sempre più dentro la parte del Che Guevara pentastellato) – restando semplicemente a guardare, al pari di quei poveri civili che uscirono dalle loro case la notte del 26 aprile 1986 ammaliati dalle luci dell’incendio della centrale nucleare di Chernobyl, inconsapevoli del fatto che le radiazioni li avrebbero uccisi da lì a poco. Luigi di Maio è lì, solo nella notte, ipnotizzato dal crollo del suo progetto politico, paralizzato davanti all’avanzata delle voraci orde barbariche delle Lega.

«Di Maio dì qualcosa!» per citare Nanni Moretti. Bè, in realtà, l’attuale Ministro del Lavoro ha provato a sfogarsi coi suoi militanti, riuscendo a fallire anche in quello. Infatti, davanti ad una platea di fedelissimi, speranzosi di sentire un grido di battaglia che potesse rinserrare le fila del Movimento, ha spiegato che «a volte bisogna subire l’insopportabile atteggiamento della Lega…», lasciando nell’aria un misto tra incredulità e sgomento. «Ma come? Siamo il partito di maggioranza, abbiamo il doppio dei parlamentari della Lega!» avrà pensato qualcuno di loro.

Ma il nostro Luigino, non sarà magari un “animale politico”, ma resta comunque una persona onesta, e proprio per questo si lascia andare ad un’amara confessione: «voi dovete pensare che ogni volta che si deve approvare una legge in Parlamento o si deve approvare una cosa in Consiglio dei Ministri – spiega alla platea pentastellata – io mi devo sedere al tavolo con Conte e quell’altro là (Salvini) e dobbiamo fare un accordo di maggioranza ogni volta».

Davvero assurdo il funzionamento di una repubblica parlamentare, vero Luigi? Potevano avvertirti prima che non fosse sufficiente votare “Sì” o “No” in un sondaggio in rete per approvare le leggi! Se Humphrey Bogart fosse ancora tra noi, col suo impermeabile scuro e il cappello abbassato sugli occhi, ti sussurrerebbe «È la democrazia, bellezza!».

Ad ogni modo, è ragionevole presumere che la storia di questa sorta di ircocervo che è stato il “Governo del cambiamento”, stia per concludersi. E quando il nostro Luigi si troverà a dover fare un bilancio della sua esperienza, è probabile che non si farà alterare dalla collera per aver dato la speranza di milioni di persone in pasto al Donkey Kong leghista, sancendo così la fine della sua carriera politica, ma guarderà quella foto che lo ritrae sorridente insieme al suo Matteo durante la firma del contratto di governo, e penserà a ciò che avrebbe potuto essere e che non è stato.