di Ivan Ariosto

A partire dall’invenzione della fotografia da parte di Louis Daguerre nel 1838, nel suo piccolo studio in Boulevard du Temple, ogni dramma del mondo moderno ha avuto il suo acme iconografico (Roland Barthes parlerebbe di “punctum”), da ultimo il crollo della guglia durante l’incendio della cattedrale di Notre Dame.

Così, la sistematica demolizione dei basilari principi del moderno Stato di diritto ha raggiunto il suo culmine (fino ad ora…) venerdì 26 luglio 2019, a Roma.

La foto che ritrae il diciottenne americano Gabriel Christian Natale Hjorth, accusato di concorso nell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ammanettato e bendato nell’ufficio del reparto investigativo dei Carabinieri di via Selci, è il simbolo del crollo dei valori fondanti dello Stato di diritto, ma – cosa ben più grave – è un insulto ai principi fondamentali della Costituzione Italiana. L’art. 27, comma 3 della Carta Costituzionale, infatti, prevede espressamente che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Concetti che oggi appaiono distantissimi, come se fossero stati instillati dagli abitanti di qualche pianeta lontano presso una civiltà rozza e arcaica. Ed invece sono il prodotto del pensiero e della cultura dei nostri avi, Padri della Repubblica.

Sopra la testa del giovane statunitense emergono, quasi a formare una corona sul capo del reo confesso, i volti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e dei magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Chissà cosa penserebbero loro, uomini di Stato, della situazione attuale del nostro Paese. Cosa penserebbero loro di un Ministro dell’Interno che inneggia alla pena di morte vigente negli USA, e che auspica una condanna ai lavori forzati (non contemplati dal nostro ordinamento) per i due ragazzi? Sarebbero orgogliosi di campeggiare saltuariamente sulle bacheche Facebook di utenti che un secondo dopo inneggiano – mossi dall’onda emotiva creata dalle parole del loro “Capitano” – alla pena di morte, alle mutilazioni per i condannati, allo stupro, e barbarie simili?

Di certo, non si può gettare la croce soltanto sulle spalle di qualche giovane carabiniere che ha travalicato i limiti delle sue funzioni. D’altronde, quando il Ministro dell’Interno definisce “infami” dei soggetti fermati per un reato, vuoi che qualcuno non si faccia prendere la mano?

Va detto, tuttavia, che è stata tempestiva la presa di distanze da parte del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che – tramite il generale Roberto Riccardi – ha definito l’immagine «intollerabile», incaricando immediatamente il Comandante provinciale di Roma ad effettuare le necessarie indagini interne.

La vicenda si presta, nondimeno, ad una riflessione di carattere generale.

Il clima d’odio, adeguatamente cavalcato da alcune forze politiche di governo, ha ormai raggiunto la sua massima diffusione, attraversando trasversalmente la gran parte dei livelli sociali, con buona pace dei valori fondanti della nostra nazione. Nell’esatto momento in cui si cede agli istinti di vendetta, a scapito della razionalità della giustizia, si uccidono i principi fondamentali di una civiltà fondata sullo Stato di diritto. Ed è ciò che sta accedendo nel nostro Paese.

Mai, in nessun caso, lo Stato – nella sua veste di entità sovrana, garante della convivenza civile tra i cittadini – deve cedere agli istinti di vendetta propri di un “quisque de populo”. È bene tenerlo a mente, soprattutto quando si è Ministro dell’Interno.