di Carmelo Sostegno

Le bici scorrono lungo i viali di Vondelpark, gli alberi di notte chiudono la strada, di giorno distendono le proprie ombre sulle crepe accennate dell’acqua. La capitale olandese galleggia sull’Amstel  e i colori carpiscono assai seriamente tutti i pensieri. “È un posto stupendo (…) Il ricordo del periodo di Amsterdam rimane vivo nella mia memoria” – scrisse Van Gogh in una lettera indirizzata al fratello Theo.
Amsterdam è stata la mia prima volta di fronte ai quadri del famoso pittore olandese. Il Van Gogh Museum accoglie solo alcuni dei suoi numerosi dipinti. Un accennato brusio lentamente e spesso si spegne; un serpente di gente lentamente scorre davanti ai quadri e lentamente, di tanto in tanto, fa muta. Scopri lì I mangiatori di patate, Natura morta con Bibbia, i Peschi in fiore dipinti quand’era ad Arles e dedicati al nipote appena nato, e i Girasoli col giallo cromo ormai marrone. Al Museum scopri tante e tutte queste cose con l’audio guida, ma la ricerca autentica del pittore, che solo il tempo ha avuto il coraggio di riconoscere, è nei suoi quadri ma anche nelle sue parole, le più sincere: Lettere a Theo.
All’ultimo piano, la sala ha i muri tappezzati di alcune delle lettere inviate dal pittore al fratello, vive, tutt’altro che fissate dietro lucide teche di vetro. Al mai stanco: “Caro Theo”, seguono delle parole profetiche, rivelano un Vincent tanto riflessivo quanto coraggioso perché attento.

Nel modo di esprimersi di Van Gogh c’è tanta retorica che prova ad avvicinarlo (e ad avvicinarci) alle cose nascoste del mondo. Le sue lettere (a Theo ne mandò circa 668) insistono su Dio, sull’amore, sulla famiglia, sulla povertà; ci sono attenti riferimenti letterari, la malinconia è inchiostro, e tanta, tanta è l’apprensione per il mondo e per la condizione umana. A 22 anni Vincent si interroga spesso e spesso si risponde in maniera sorprendentemente decisa. Sebbene il tempo impedirà la vocazione pastorale del giovane, della sua solidarietà umana resterà traccia un po’ ovunque, soprattutto nei suoi colori, soprattutto nella sua definizione d’amore.

A L’Aia, scrive una lettera in cui parla di Kee, donna della quale rimarrà innamorato per tempo senza mai essere corrisposto. A proposito dice: “ (…) Quel che intendo dire è che si sente che cosa sia l’amore quando si è accanto al letto di un malato, magari senza un soldo in tasca. Non è certo come raccogliere fragole in primavera – quello non dura che pochi giorni e la maggior parte dei mesi sono grigi e tristi. Ma in quella tristezza si impara qualcosa di nuovo (…)”.
L’altro momento difficile dell’amore di Vincent è Cristina. Quello non fu proprio amore, ma la fermezza di una parola data: “Ho dato a Cristina la mia parola”.  
Nel maggio del 1882 Theo vuole che Vincent lasci Cristina, ex prostituta. I due litigano, e quando Vincent rifiuta di abbandonare la donna, rifiuta anche l’aiuto economico che Theo gli manda ogni mese. Da questa situazione, in quel maggio Vincent perviene a una nitida definizione di libertà: “Visto che io non costringo nessuno, così non voglio esser costretto io stesso; io che rispetto la libertà altrui insisto sulla mia libertà. E voglio vivere conformemente a quella libertà”. La libertà, qualche anno prima dell’82, lo porterà nel Borinage, occasione contestualmente alla quale rivelò a Theo un periodi di avversità, un tormento che non lo abbandonerà più. Vincent sa che nella libertà c’è sofferenza. Il mondo ce l’ha. Ognuno di noi ce l’ha, e spesso nell’ indifferenza di quel mondo che soffre con te. “Quello che uno ha dentro – scrive Vincent – traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarcisi vicino, e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per la loro strada”.  “Sarebbe stato possibile – si chiede poco dopo – mantenere il fuoco interno, attendere con pazienza eppur con tanta impazienza, attendere il momento in cui qualcuno vorrà sedersi davanti e magari fermarsi?”

Due anni dopo, a L’Aia dice di “sentire il [suo] lavoro nel cuore del popolo” ed è lì che Van Gogh andrà, nel cuore del popolo. Quando nessuno si avvicina, qualcuno lo abbandona, in molti lo evitano, decide lui stesso di avvicinarsi e cercare il “grande fuoco” negli altri. D’un tratto d’un qualcosa che cambierà fortemente i suoi dipinti, si accorgerà “di quanta luce ci sia ancora in quel crepuscolo” e di come “il mondo va solo fin dove lo portano i suoi piedi”. Questa spirituale ricerca dei colori, la consapevolezza di un mondo pronto a salvare se stesso, rappresentano il genio di Vincent. I due momenti dai quali, probabilmente, partire per immergersi nei suoi quadri.

Resto in silenzio tra le pagine piene di vita, e per Theo. Quest’ultimo morirà alcuni mesi dopo la morte di Vincent. Credeva nel talento del fratello come se in gioco vi fosse la sua stessa vita. Vincent lo sa e in una lettera inviata da L’Aia nel 1882 dice di “apprezzare doppiamente e ancora doppiamente l’aiuto tanto fedele e tanto tangibile”. Una volta fuori dal museo, così diverso diventa l’odore della città, anche quando non è tutto cibo né girasoli, ed è più cordiale e più seriamente libero come lo sono i colori di Van Gogh: quel rosso giallo e blu, quando col nero e il bianco “possono creare più di settanta tonalità e varietà”. Quando l’aria accarezza la pelle, appoggiato al davanzale, sfiorando il legno d’una finestra, l’Amstel, il fiume che tiene in piedi la città, ti dà ricordi che non dovresti avere, i colori che non avevi mai visto e che d’un tratto trascina.
Camminando coi ricordi, nelle parole di Van Gogh, cammino adesso “vicino al vecchio canale e al mulino di Rijswijk, e vedo del Rembrandt in Shakespeare, del Correggio in Michelet, Delacroix in V. Hugo”, quando è necessario vivere lentamente e agire velocemente che quest’ultima “è la funzione dell’uomo, e bisogna passarne di ogni sorta prima di essere in grado di farlo. Il nocchiero a volte riesce a servirsi della tempesta per poter portare avanti, anziché lasciar affondare la nave” – L’Aia 1882.