di Andrea Alcamisi (dalla raccolta Tre Racconti)

«Elia, alla fine hai accettato il mio invito! (parte prima) Guarda cosa ho preparato per te: bacucchi e cani parlanti, penitenti e filosofi conturbanti». La voce metallica sembra uscire dall’altoparlante e la giostra inizia a girare.

È un delirio l’intera scena. Al posto di cavalli e carrozze, sui pali semoventi trovano spazio varie figure umane. Ecco la prima. Una signora anziana, con un cappellino di sbieco e una giacca color lillà, strappa senza posa santini e li ingurgita a forza, sputando poi disgustata l’ammasso colloso. Che fa ora, piange? Nel punto in cui sono cadute le lacrime germogliano girasoli che subito sfioriscono.

La seconda. Un uomo alto e ben vestito spinge una carriola traboccante di libri: tra i volumi compare un ragazzo con una manovella ficcata nel fianco destro. A ogni scatto della leva, il giovane cava fuori una lingua lunga come quella di un camaleonte. E questi sembra crogiolarsi nel suo stato, finché strilla: «Maestro, ho paura della libertà! Voglio parlare e pensare come Lei desidera». La sensazione di afasia comincia ad allentarsi. «Ecco, la cultura dello scempio!» e intanto Valencia, in my dreams it always lallallerò lallallà.

La terza. Ssssst, li lascio dormire. È così delizioso il loro abbraccio! Un uomo, insudiciato di sudore e olio, col caschetto giallo in testa – Strano, che lo abbia indosso! – e l’altro tutto imbellettato, con le scarpe nere tirate a lucido, che nel sonno continuamente chiede: «Qu’est-ce que la propriété?».
«Mais c’est le vol, Monsieur». Al direttore d’orchestra faccio segno di abbassare il volume, che suonino piuttosto la ninna nanna di Brahms.

La quarta. Oh, chi è questo stravagante omino e il suo corteo? Con gli occhi stralunati e la schiuma alla bocca, apre la calotta del cranio e vi infila pedanterie e quiproquo. Intercetto qualche frase: «La distribuzione del quorum varia tra chi può convergere e chi non può in un asse delle ascisse, cioè due per due fa quattro e dunque lorem ipsum et qui quo qua requiescant in pace». «Amen», e il pubblico applaude. È un tripudio ascoltare l’opulenza dell’inganno, ora so che il vecchio è un bravo medico. Valencia, in my dreams it always…

Sta arrivando la quinta. Quattro bassotti tentano di azzannare un boccone di carne annodato al filo sottilissimo di una canna agganciata al palo della giostra.
«Bau, la cuccia sta crollando, ma il pezzettino di carne sarà mio».
«Bau bau, ho sempre rubato le bistecche, chi verrà dopo pagherà il conto».
«Bau bau bau, oggi toelettatura, domani pedicure e dopodomani baffo colorato».
Il cane quattro è impegnato a scattare qualche foto. Lo sostituisco, se la regia lo vorrà. Va bene, bau bau bau bau. Valencia, in my dreams it always lallallerò lallallà pulsa nelle mie vene, è un antibiotico efficace.

La sesta, l’ultima. Su un seggiolino sta avvinghiato un bambino imboccato da un cuoco panciuto. Do un’occhiata al manicaretto: sono lettere di pasta affogate in abbondante sugo. Leggo P E T R O L I O, eh già muove il motore, mmh che bontà… lallallero lallallà.
La melodia continua ancora a inebriarmi e percepisco una linfa nuova dentro di me. Le figure scendono dalla giostra e mi prendono per mano. Ehi, cane tre, non sbavarmi sul braccio! E la nonnina sputa e piange, l’uomo culla il giovane camaleonte, l’omino apre e chiude la calotta del cranio, il cuoco mette un po’ di peperoncino, i cani si azzuffano e io giro follemente fino a elevarmi al di sopra di loro. Una mano mi tira giù e mi stringe in un tepore avvolgente. È il vegliardo, è guarito: le ferite si sono rimarginate, le rughe non solcano più il suo viso e la barba è rilucente. Sorride dissolvendosi in un pulviscolo di atomi evanescenti e io ne respiro l’effluvio. Il furore bacchico aumenta sempre di più e il girotondo ammaliante, e i suoni, e i giri incantevoli della giostra, e la coscienza seducente, e tutti noi, miseri burattini mitologici, siamo trascinati nel convulso sabba della consapevolezza.

«Ehi, ragazzo, sveglia». Le palpebre mi tremano e la vista è annebbiata. Mi ritrovo accasciato sulla panca, spogliato dal macigno dell’eterno letargo. Sono Elia, il… Dov’è la giostra? Nulla, solo lo spazzino si aggira intorno alla fontana. Mi alzo, ma qualcosa s’impiglia. Uno strappo. Ora capisco, e ogni tassello torna al suo posto: la giostra dell’agnizione non era altro che la fontana del Nettuno e Giona sono io. Giona in carne ed ossa, pronto a liberare ciascuno dai fumi dell’angoscia librando sopra il magma viscoso dell’affanno. Ecco cosa attutivano i miei rantoli: un’umanità che brama assistere perennemente alla commedia delle illusioni, anche nei suoi meandri bizzarramente bestiali. Posso adesso sciacquare gli oltraggi e riparare con il fuoco dell’amara conoscenza le offese del mondo!

Fine.