di Andrea Alcamisi (dalla raccolta Tre Racconti)
Provo quasi piacere all’idea che la follia sia la risposta giusta all’indifferenza. D’altronde, credo che abbeverarsi alla fonte dell’insania metta al riparo dall’ingrato compito di prendere una decisione. Di qualunque natura essa sia, infatti, si troverà sempre un pugno di spettatori che, come un branco di lupi affamati, non vedrà l’ora di spolparla. Allora preferisco rintanarmi nella gabbia della mente, indossare io stesso la toga ed emettere il verdetto. Ma stare rannicchiati nel cantuccio dell’ego è realmente vivere? Esisto solo perché respiro e va in frantumi ogni certezza. “Ridere e piangere quanto basta”, mi dicevano, come se sapessi dosare le emozioni. Così il silenzio è diventato il miglior compagno di giochi che potessi desiderare e se non fosse stato per il ticchettio fitto delle unghie sul piano della scrivania, sarei un fantasma. Esiliato, con il peso di un male ignoto, lentamente affondo in un brodo anemico e un frastuono di smorfie plastiche avvolge la discesa.
Da giorni sono incollato alla sedia. Con il capo riverso sul tavolo mi perdo osservando i granelli di polvere che vi si adagiano lievi. Ma il sollievo svanisce e con la mente ritorno a quella sera, al parco. Mentre mi gingillavo con la solita bottiglia di vino da quattro soldi sentii delle grida sempre più violente. Guardai verso la fontana del Nettuno sulla quadriga dei tritoni e vidi un uomo vestito di stracci che correva intorno alla vasca; terminata la corsa, saliva sul bordo e si immergeva per uscirne lesto. Mi avvicinai per offrirgli un sorso di vino, ma trasalii giacché la situazione prese una piega inaspettata: con un balzo, l’uomo rientrò nella vasca, sfilò il tridente dal pugno del Nettuno e, in groppa a un tritone bronzeo, iniziò a latrare e a sorridere insieme in un miscuglio di suoni incomprensibili. Infine urlò, e con il tridente squarciò la bottiglia di vino. L’assurdità della scena mi tolse ogni capacità di comprensione; lo specchio d’acqua limaccioso e lo sguardo torvo dei tritoni fecero il resto. Ricordo, però, che rimasi sbalordito dalla terribile somiglianza tra me e la furia indomabile: gli occhi sanguigni e le risa beffarde stampate sul viso mi troncarono il fiato. Per la prima volta ebbi davvero paura di toccare la mia parte malata e l’inquietudine fece breccia nel torpore antico. Perdetti di vista l’uomo e tornai a casa col pensiero fisso a Giona. Sì, Giona, così chiamai la belva furiosa. Per tre giorni e tre notti Giona ebbe un volto e un corpo. Giona, sputato dal ventre dell’oscurità mentre io assaporavo l’angoscia di sempre. Ora un naufragio di parole m’impedisce di continuare la storia perché la memoria è muta e la coscienza è sorda. Ma Giona lotta ancora, si batte tremendamente, come Orlando nella quiete insidiosa della mia casa ridotta a una Roncisvalle.
Cos’è questo rumore? Hanno bussato alla porta?
«Cosa volete? Non ho soldi. Andatevene!»
«Sei tu Elia, il profeta? Apri la porta! Ti dico: apri!»
Tre rintocchi di campane: è l’ora nona e il muro di silenzio s’incrina. Un vegliardo avanza nella penombra. La barba folta, il passo lento.
«Sì, sono Elia, ma non il profeta che dici».
«Oh sì, sei Elia, il benedetto profeta. E tu, non mi riconosci?»
Che cosa dovrei rispondere? Ormai sono il pasto del ventre viscoso e umido di Giona, maledetto Giona! Tutto è così lieve, tutto è amaro, tutto è Giona.
«Chi sei, vecchio?»
«Davvero non sai chi sono? Guarda le mie pustole, sono i tuoi taciti assensi, e la barba, quella lurida prigionia alla quale hai condannato me e te stesso». La sua voce s’insinua, è un serpente. «Elia, tu hai il male del mondo», ecco il sibilo della verità. Chiudo gli occhi e scappo, corro, mi rifugio tra le macerie biancastre del passato. Ho i graffi delle imposizioni e i segni delle storture. Condannato a raschiare solo ricordi infranti e nulla più. Sono Elia, il moribondo, non il profeta. «La cura è la conoscenza, terribile e meschina sofferenza. Ti aspetto al parco e lì troverai il Giona che vai tanto cercando».
«Chi è Giona? Dimmelo, diavolo di un vecchio!»
È sparito, ammesso che fosse davvero qui. Ho caldo, sono stanco. Questa stanza è diventata una trappola. Forse il vegliardo aveva ragione: più la sopprimo, tanto larga si fa la ferita; si gonfia e ribolle fino a scoppiare. Sembra un dittico il mio tormento: Giona galoppa, il vecchio trafigge e io nel mezzo sono una cerniera arrugginita.
Ho ancora il male arcaico conficcato nella carne. L’anamnesi è già conclusa da un pezzo: Elia Grieco, paziente in fibrillazione ventricolare, opacamente presente e lucidamente assente. Ma la brezza del vento notturno, tra le corsie dei viali e l’astanteria delle aiuole, ristora appena l’umore e ammorbidisce un poco la pena. Nonostante sia morta la prima ora, sono ancora qui a rincorrere le farneticazioni di un vecchio e a seguire una canzone che si spande in tutto il parco. È una melodia invitante da flapper girls e charleston, Valencia, in my dreams it always seems I hear you softly call for me… Finalmente la sento vicina. Mi immergo tra gli arbusti, nel fascio di luci e di suoni. E davanti a me si staglia una giostra rosa vivo con ornamenti dorati, e sulla cima un tappeto di zucchero filato. Intorno al perno centrale, su un piano in legno leggermente sopraelevato, suona una piccola orchestra: un banjo, una tromba, un contrabbasso, un clarinetto e un direttore che col piede batte il tempo su un barile di bourbon. Il vecchio in piena putrescenza, ritto nel gabbiotto di comando, mi fissa spalancando la bocca cadente. Ha un grumo di capelli appiccicati alle tempie per il pus giallognolo di una cisti incancrenita. Poggia i palmi rachitici sulla lastra di vetro e mi fa cenno di volgere lo sguardo.
«Elia, alla fine hai accettato il mio invito…
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