di Ivan Ariosto
Alla vigilia delle elezioni europee, in molti Paesi del vecchio continente soffia sempre più forte il vento del nazionalismo, baluardo delle forze politiche emergenti, le quali spesso finiscono per strizzare l’occhio a simboli, icone e linguaggi legati ai regimi che furono.
Il fatto che ancora oggi, a pochi chilometri dai nostri confini, precisamente in Ungheria ed in Turchia, vi sia una sistematica violazione dei diritti fondamentali della persona da parte di governi di matrice autoritaria, non sembra destare il minimo scandalo nell’opinione pubblica europea.
Così, succede che anche l’uomo comune, protagonista abituale delle vie e delle piazze nostrane, si senta legittimato ad invocare “quando c’era lui…”, come un mantra contro le quotidiane ingiustizie, pur non avendo mai vissuto un giorno della propria esistenza sotto l’egida di un regime totalitario. Dinanzi ad un’innegabile crisi sociale, prima che economica, l’autoritarismo appare come un bene-rifugio agli occhi di coloro che, paradossalmente, mai in vita loro hanno posto il dito nelle ferite di una nazione, al pari di ciò che fece Tommaso al cospetto del costato martoriato di Cristo.

Dmitrij Shostakovich
Pertanto, in un’epoca in cui lo studio della storia è divenuto ormai un ingombro, roba da relegare nello scantinato delle coscienze, come quegli elementi di arredo ormai fuori moda che si preferisce esiliare in polverosi garage, a ricordarci l’importanza di vivere oggi in un’Europa libera e democratica soccorre la musica, in particolare la vita di uno dei più grandi pianisti e compositori del Novecento, Dmitrij Shostakovich.
Nato a San Pietroburgo nel 1906, a soli vent’anni è già la punta di diamante del panorama musicale sovietico. Tuttavia, nel 1934 la nomina di Andrej Ždanov a responsabile della propaganda culturale del regime stalinista sancisce l’affermazione del c.d. realismo socialista, ovvero di quel canone artistico-culturale imposto dai vertici dell’URSS, che contemplava solo e soltanto la rappresentazione della realtà quotidiana dei lavoratori come ritratto del trionfo del socialismo.
L’intento criminale del realismo socialista si manifesta nella mortificazione dell’impulso creativo delle arti, non c’è spazio per alcuna rappresentazione delle passioni, dei sentimenti, delle ossessioni e delle paure dell’individuo. Il senso dell’arte come grimaldello per evadere dall’ergastolo della quotidianità viene soppiantato dalla propaganda di regime. Nella Russia stalinista, non c’è spazio per l’individuo che voglia “staccare la propria ombra da terra” – per citare lo scrittore Daniele Del Giudice – e fuggire dalla sua misera esistenza.
A partire da quel momento, su ordine di Stalin, tutte le sinfonie formalistiche scritte da Shostakovich vengono bandite dai teatri sovietici e la sua opera di maggior successo Lady Macbeth, viene stroncata su tutti i giornali, che la accusano di essere «caos invece di musica», definendola caotica, apolitica e pervertita. Pochi anni dopo, viene bandita anche la sua Quarta sinfonia, poiché priva del “necessario ottimismo socialista” ed accusata di essere simbolo di decadenza e formalismo.

Stalin & Ždanov
Ad un passo dal suicidio, Shostakovich viene convocato a sorpresa dallo stesso Stalin, il quale – dopo aver minimizzato le accuse mosse dai giornali della propaganda – lo “incoraggia” a scrivere nuove sinfonie, mettendo però in primo piano la tradizione popolare sovietica. Da quel momento in poi, il compositore russo matura una vera e propria paranoia nei confronti del dittatore, inizia ad impiegare lunghi mesi per scrivere nuove opere, ma spesso finisce per stralciarle temendo l’eventuale censura del regime. Censura, che nello stesso periodo, molti altri artisti come lui pagano con la vita.
Nel 1937 viene eseguita a Leningrado la sua Quinta Sinfonia, ricalcante lo stile estremamente trionfale dettato dalla propaganda sovietica, ma nel periodo in cui la compone, Shostakovich confessa nelle pagine del suo diario: «è chiaro che nella Quinta Sinfonia il giubilo è forzato, è frutto di costrizione. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare!”. E tu ti rialzi tremante, con le ossa rotte e riprendi a marciare sussurrando: “Il mio dovere è di giubilare, il mio dovere è di giubilare…».
Atterrito dalle continue restrizioni imposte da Ždanov, la carriera del brillante compositore si ricopre gradualmente della patina grigiastra della dittatura. La sua quotidianità diventa il simbolo del lento accartocciarsi di un uomo, la cui esistenza è progressivamente svuotata del fervore artistico dato dal suo immenso talento.
Nonostante la sua successiva riabilitazione nel panorama culturale sovietico, l’irriducibile timore paranoico maturato da Shostakovich nei confronti di Stalin non si placa neanche dopo la morte di quest’ultimo nel marzo del 1953. «Io ti guardo – scrive nel suo diario il giorno dei funerali del dittatore – vedo che giaci lì morto, ma dentro di me so, che da un momento all’altro potresti risorgere e colpirci tutti, martello di Dio».
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