Di Leonardo Pastorello

Erano gli anni di piombo e delle diatribe politiche fra PCI e DC, segnati da una delle pagine storiche più drammatiche ed enigmatiche della nostra Repubblica: l’assassinio di Aldo Moro, uno dei pochi esponenti del partito cattolico con cui Enrico Berlinguer poté confrontarsi, dialogare e raggiungere un possibile compromesso storico all’insegna della solidarietà sociale.

Erano gli anni in cui la nostra Europa era ancora divisa in due mondi concorrenti, i quali si facevano la guerra per mezzo della propaganda e dei servizi segreti. In questo clima di terrificante tensione, in quel maledetto 9 maggio 1978, perse la vita anche un italiano meno noto, un ‘’siciliano di provincia’’, un tale Peppino Impastato, figlio del mafioso Luigi e nipote di Cesare Manzella.

Secondo le prime narrazioni della stampa e dello Stato, si trattò di un suicidio: Peppino era talmente depresso che ebbe le forze di farsi saltare in aria dopo aver battuto volontariamente contro le pareti di un casolare la propria testa; sarebbe stata quella la codardia dell’attivista antimafia più ironico della storia siciliana, dopo tutti quei comizi teatrali non autorizzati, dopo le occupazioni delle terre espropriate, dopo le battute rivoluzionarie in radio. Sarebbe stata quella la lotta del provinciale Peppino: la distruzione della bellezza rivoluzionaria con un suicidio inventato dallo Stato. Ma come sappiamo – e ancora non sappiamo – mamma Felicia e il fratello Giovanni hanno trasformato la loro rabbia in senso delle istituzioni e della giustizia sociale.

Vent’anni dopo, Peppino, fu riconosciuto vittima di un omicidio mafioso ordinato dal suo più grande nemico, il boss Gaetano Badalamenti. Ma cosa è rimasto oggi di Peppino? Cosa è rimasto alle nostre coscienze civiche della sua figura? Quali insegnamenti può trarne ancora la quasi estinta Sinistra italiana? Ma soprattutto: cosa è rimasto a noi della bellezza e della memoria?

Dopo il successo del celebre film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, la visibilità mediatica di cui hanno goduto i familiari di Peppino, purtroppo, è solo recente. D’altronde, ‘’meglio tardi che mai’’, si direbbe; ciò che noi giovani auspichiamo è che si parli sempre di più di questa interessantissima figura. <<Peppino non è imitabile o emulabile. Non si tratta di mito o eroismo. Peppino e Felicia devono essere ricordati perché sono un esempio di non rassegnazione, di attivismo, di forza, di determinazione>> (G. Impastato, Oltre i cento passi, cit., p.197).

In questa terra infangata dal professionismo dell’antimafia, dovremmo riflettere sulla nozione stessa di antimafia, che come Sciascia insegna non proviene dall’alto, bensì dal basso, dal quotidiano dei cittadini, dalle piazze, dalla memoria, dai salari, dal lavoro etico e dalla salvaguardia della bellezza. Quest’ultima caratterizza l’essenza kantiana di Peppino, attivista difensore di uno dei più grandi universali a cui tende l’animo umano. La difesa della bellezza è un’esigenza morale, un imperativo categorico, una chiamata alle armi della coscienza. Il più grande insegnamento di Peppino è questo: agisci in modo che la legalità e la bellezza siano un fine, e non un mezzo.