Di Giorgia Moscarelli

Nankurunaisa. E’ un termine giapponese e significa “con il tempo si sistema tutto”.
Non è sempre così.
Ci hanno insegnato ad attendere, a lasciar scorrere, a fare tesoro del tempo che implica esperienze e a maturare in base ad esse. Nel ventunesimo secolo la dimensione temporale ha acquisito valenze differenti e paradossali: se da un lato, nel concreto, sfugge ai sempre più frenetici ritmi quotidiani, dall’altro, nel nostro immaginario, sembra non avere fine e giustificare il procrastinare di ogni responsabilità.

Ce lo insegna Greta Thunberg, ce lo insegnano i mass media, lo deducevamo ai tempi della scuola, quando posticipare lo studio voleva dire “ridursi all’ultimo momento” – frase fastidiosissima – e, bene che andava, sfiorare già allora il fallimento, in preda ad uno spauracchio che non insegnava, tuttavia, la lezione per i giorni successivi.
La nostra epoca è segnata dalla prepotenza di una civiltà che vanta il progresso e la saggezza esperienziale, ma anche da un costante ritardo nel far tesoro di quelle esperienze e consapevolezze di cui siamo consci, ma che tendiamo ad ignorare, sottovalutare, rimandare, come fossero compiti per casa.

È un’epoca di plastica, fittizia, con i suoi valori “usa e getta”, comodi nel momento del bisogno, accantonati chissà dove – né ci interessa – quando la freneticità quotidiana ci travolge e ci priva di quel tempo che svia le logiche di sopravvivenza: “non ho tempo per vivere, ma per vivere c’è tempo”.
È un’epoca in cui ci troviamo soffocati da un mare di concetti e giudizi che ci bombardano senza lasciarci il tempo di catalogarli, differenziarli. Lasciamo che ci “inquinino” le idee, e i pre-giudizi entrano nelle nostre case come onde di plastica, difficili da debellare, pesanti e puzzolenti. Il tempo ci ha negato lo spazio; la notizia – che sia fake o reale non importa – ci culla tramite lo smartphone prima di addormentarci e, senza che ne accorgiamo, lede la capacità critica di ogni uomo. Mentre le ore ci sfuggono davanti allo schermo, “apprendiamo” che il mondo sta finendo, che cinquanta bambini hanno sfiorato la morte, che le elezioni si avvicinano. Ed il tempo fagocita il tempo quando i commenti altrui – di chiunque altro – precedono il nostro metabolismo cognitivo, confezionando per noi, in rigida ed immortale plastica, cancerogene sentenze: non abbiamo altro tempo se non quello per sentir dire che la piccola eroina ambientalista è pilotata, che l’autista del bus dei bambini è senegalese, che i candidati alle prossime elezioni sono troppi – a chi importa cosa pensano o cosa dicono? E chi ha il tempo di indagare sulla veridicità di ciò che si dice?

Bisognerebbe differenziare per prima cosa il tempo, ritrovando quello presente e salvaguardando quello futuro. Bisognerebbe riciclare i valori dispersi in acque sempre più profonde, differenziarli dai giudizi altrui. Bisognerebbe differenziare le persone, fonti di dogmi universali che non lo sono affatto.
Occorre ritrovare se stessi, alzare uno scudo per poi avanzare con i propri strumenti, invece di rimanere immobili, bersagli di velenose frecce mediatiche e non, con le spalle al muro. Un muro di plastica, senza tempo.
E senza tempo, noi non siamo.
Quando lo cercheremo, lo avremo esaurito, insieme all’ossigeno, insieme al buon senso, insieme alle verità.