di Ivan Ariosto

Il 7 marzo è uscito nelle sale cinematografiche il nuovo film diretto da Walter Veltroni, dal titolo «C’è tempo».

A dieci anni esatti dalle sue dimissioni dalla segreteria del Partito Democratico da lui stesso creato, in seguito alle sconfitte elettorali del triennio 2006-2009, e nonostante i clamorosi flop del suo programma televisivo «Dieci cose» andato in onda nel 2016 (che doveva teoricamente rilanciare il sabato sera di Raiuno e che invece ha chiuso i battenti anticipatamente) e dei suoi numerosi libri (a cui non sono servite le idilliache recensioni dei vari Severgnini e co.), Veltroni torna dietro la macchina da presa, non con un docu-film stavolta (come i suoi precedenti «I bambini sanno» e «Quando c’era Berlinguer»), ma con una commedia.

Chi legge probabilmente si chiederà in quale pianeta si trovasse quando Veltroni sfoderava una simile mole di lavori creativi, ma è una domanda più che lecita, dato che al clamore dei loro esordi è seguito un altrettanto clamoroso silenzio massmediatico al momento dell’emergere degli esiti in termini di (in)successo.

I più ottimisti potrebbero pensare che stavolta il nostro Walter, davanti ai desolanti scenari della società e della politica italiana contemporanea, al drammatico sfaldamento di quella middle class da lui tanto corteggiata, motore dell’economia del bel Paese, al conclamato trionfo dell’incompetenza, alla xenofobia dilagante, abbia finalmente deciso di “prendere il toro per le corna” e dirigere un film-denuncia in stile pasoliniano, capace di risvegliare le coscienze del popolo italico.

Di fare, insomma, ciò che ci si aspetterebbe da un ex leader di quella sinistra, ridotta ormai ai minimi termini, chiamata oggi più che mai a fornire una visione alternativa della realtà. Invece, no. Sembra che al giorno d’oggi l’ottimismo sia parente dell’illusione.

Nella nuova commedia veltroniana non c’è spazio per la speculazione, per il realismo, per la critica acuta, per la descrizione di uno spaccato di realtà dimenticata, per un punto di vista diverso e anticonformista capace di condurre lo spettatore – seppur nell’ambito di una commedia – verso una qualche sorta di riflessione sulla società, sull’esistenza o anche solo su sé stesso. Tutto ciò, agli occhi dell’ex sindaco di Roma, è roba per persona tristi, per gente incapace di sognare guardando il cielo.

In «C’è tempo», infatti, Stefano (quarantenne un po’ immaturo interpretato da Stefano Fresi), fa proprio questo mestiere, l’osservatore di arcobaleni.

Sulle note delle canzonette fuori tempo de Lo Stato Sociale, lui e il suo fratellastro tredicenne Giovanni, di cui accetta la tutela, sono protagonisti di un viaggio on the road (uno dei temi più abusati del cinema fin dai tempi della sua stessa invenzione) all’insegna dei sentimenti e di domande amletiche del tipo «Quand’è che si finisce di essere bambini?» a cui seguono risposte “trasgressive” come «Per me è stato quando un giorno ho sentito la voglia di prendere un motorino e andarmene. È stato il giorno più bello della mia vita». Dialoghi capaci di far sentire a disagio anche uno spettatore sedicenne in piena ribellione adolescenziale.

Preme, però, una precisazione: non è il film in sé il punctum dolens della questione (che se fosse stato girato da un Fausto Brizzi qualsiasi, avrebbe potuto ritenersi conforme agli standard della commedia italiana di oggi), bensì la portata storico-politica del suo autore.

Non si possono, infatti, trascurare le responsabilità storico-politiche di colui che ha risposto al berlusconismo con la sistematica desertificazione del pensiero progressista. Del fautore del mito della vocazione maggioritaria del centrosinistra, che – sotto gli influssi veltroniani prima e renziani poi – si è tradotta nell’evocazione, da parte di quell’area politica, dei miti più inoffensivi (dalle canzoni di Jovanotti ai libri di Gramellini, passando per i film di Virzì) per mostrare sé stessa.

La nuova creatura veltroniana prosegue sulla scia di questa tendenza: accarezzare il pensiero dei ceti medi come fosse il morbido pelo di un cocker spaniel, favorendo così lo sviluppo di un pensiero ancor più medio, un pensiero da cri-ceti medi.