Di Giorgia Moscarelli

Un recente articolo de LaRepubblica mette in luce il blitz femminista nei confronti di una pubblicità sessista a Palermo: “Hanno scritto BASTA su alcuni cartelloni in cui si pubblicizza un olio per auto con una donna in lingerie” scrive il giornale. È sorta, così, una polemica che ha condannato la campagna dell’azienda, la cui protesta contro la #violenzasulledonne è giunta anche a Milano. “Riteniamo inammissibile la presenza negli spazi della nostra città di foto che compiono un chiaro atto di violenza sulle donne sfruttando l’immagine femminile per finalità commerciali, utilizzando in maniera impropria il corpo femminile. Non ci fermeremo finché non saremo libere dalla violenza di genere in tutte le sue forme e in tutti i suoi luoghi” sostiene Claudia Borgia. Non accogliere pienamente tale denuncia non vuol dire ritenere che i mezzi utilizzati al giorno d’oggi dalla società e dai media siano appropriati e legittimi.

Fatta questa doverosa premessa, tuttavia, siamo sicuri che ad essere violentata sia la donna e che ad essere sfruttato sia il suo corpo? La donna che si presta a pubblicizzare un prodotto, non fa altro che servirsi di una propria capacità o di un proprio potenziale, in tal caso la propria immagine, prestandosi per un lavoro non troppo faticoso e spesso ben retribuito. Non vi sono costrizioni. La maggior parte di queste donne ama il proprio lavoro, che spesso rappresenta una scusa per tenersi in forma e che identifica tali soggetti come icone di bellezza, portando molte volte alla notorietà. Parliamoci chiaro: quale donna non apprezza o ammira il bell’aspetto di una modella, che non sia eccessivamente magra o eccessivamente provocante, ma semplicemente “bella”? D’altra parte, a voler essere sinceri, è più semplice e divertente fare un lavoro come questo che altri come l’insegnante, il medico, la commessa o l’avvocato. Il lavoro nobilita l’uomo, ma le occupazioni sono differenti tra loro, hanno conseguenze diverse, orari diversi e diverse specializzazioni; alcune più faticose, altre più facoltose, altre ancora più piacevoli. E non c’è niente di male ad ammetterlo. Viceversa, a fare molta più tenerezza sono quegli uomini la cui ingenuità viene sfruttata per costringerli inconsciamente a comprare un determinato prodotto, convinti di vedere “in esso” la “felicità”.

La vera minaccia che dovrebbe essere indagata è insita nell’idea che l’uomo possa avere della donna, e non nei mezzi utilizzati per “abbindolarlo”. Ovviamente l’immagine che si presenta è quella di un cane che si morde la coda, un circolo vizioso che vede tali manifesti pubblicitari come il contributo per la costruzione di un’immagine negativa. Ma vi sono delle priorità, e gridare “al lupo! Al lupo!” può essere deleterio quando si tratta di mettere in guardia un’intera società. Una società che se da un lato conosce e si serve del mondo della pornografia, ad esempio, dall’altro non si fa scrupoli nemmeno nel pubblicizzare un profumo maschile con l’immagine statuaria di un uomo scolpito. In tal caso non ci si scandalizza, poiché l’uomo, in tal senso, è al sicuro. Il problema va allora ricercato altrove. Non di certo nelle campagne pubblicitarie che, per quanto poco costruttive o pertinenti possano essere, non costituiscono il vero problema. Del resto, si sa, la pubblicità è per natura costruita con i “mezzi” che attraggono.

La polemica nasce nel momento in cui ci si rende conto che la figura femminile costituisce un “mezzo” appunto, un “oggetto”; non nel momento in cui “la si usa per pubblicizzare” (è la donna che, consenziente e retribuita, pubblicizza), ma nel momento in cui “è necessario che pubblicizzi una donna per convincere un uomo”. Allo stesso modo, diverse attività commerciali assumono figure femminili per attirare la clientela ed i programmi televisivi, anche calcistici, scelgono le show girls per avere più audience. Se l’olio per motori non può essere pubblicizzato da una donna, questa non dovrebbe nemmeno servire i caffè al bar o commentare le partite della domenica. Siamo fuori strada. È come dire che non dovrebbero più vendersi minigonne, in quanto esibiscono il corpo femminile.

Al contrario, la donna è libera di indossare ciò che vuole così come è libera di fare il lavoro che desidera, senza per forza attribuire determinate scelte ad uno sfruttamento nel senso più negativo del termine. Piuttosto si sfrutta il modo migliore per vendere. Sì, è una realtà triste quella in cui si è schiavi dell’immagine. E schiavi sono coloro che hanno bisogno della modella dal bell’aspetto per pubblicizzarsi e coloro i quali si lasciano convincere. La donna sì, assume un ruolo scomodo, divenendo a volte essa stessa schiava della propria immagine. Ma la posizione più squallida e meno dignitosa non è la sua. Alla luce di ciò, andrebbe difesa e rieducata un’intera società, vittima dell’estetica – la meno decorosa – e piegata al vizio più antico del mondo. E’ la collettività, è l’uomo a dover conquistare la libertà rispetto alle fantasie che li condizionano nella vita. Vi sarebbe meno malizia e, di conseguenza, anche la donna farebbe le proprie scelte liberamente, senza preoccuparsi del pregiudizio cui incorre.