Di Teresa Nigro
Tanga, mutande, perizomi: la lingerie femminile è svariata, si sa. Le donne devono dimenarsi tra una scelta infinita di opzioni e nel farlo devono stare molto attente, non tanto alla comodità dell’indumento, bensì alla scelta che potrebbe essere una chiara istigazione al sesso. Al bando pizzo, merletti, colori pretenziosi, bisogna mantenere un profilo basso se non si vuole essere stuprate. Vanno bene mutande bianche, preferibilmente di lana, oppure usare biancheria intima dell’epoca vittoriana che ha la stessa facile reperibilità di un calesse. Insomma armatevi di buon senso e basta tanga.
Sembra un discorso delirante? No, non lo è. Un uomo ha stuprato una ragazza di 17 anni ed è stato dichiarato innocente perché la vittima indossava un tanga in pizzo.
“Dovete guardare come era vestita”
Lo stupro è avvenuto in un vicolo della città di Cork, Irlanda. Durante il processo, avvenuto il 6 novembre, l’avvocato dello stupratore ha sbandierato la biancheria intima della ragazza come prova inconfutabile del consenso al rapporto sessuale, «Guardate il modo in cui era vestita. Portava un tanga in pizzo».
L’indumento è stato dichiarato un chiaro segnale che la ragazza era attratta dall’uomo o che voleva un incontro con lui.
La stessa attrazione potrebbe averla chiunque alla vista di un Rolex, in bella mostra al polso di un soggetto che chiaramente sta ostentando la sua ricchezza, con sfacciataggine sta palesando il suo stato sociale. Una tale sfrontatezza potrebbe far crescere un’irrefrenabile e giustificata voglia di rubare il costosissimo orologio. Chissà se allo sfrontato si domanderà “Eri vestito così durante la rapina?”, “Hai lanciato segnali ambigui?”, “Cammini con un Rolex? Te la sei cercata”.
No, nessuno attribuirebbe la colpa a una vittima di rapina. Un trattamento diverso è riservato alle donne vittime di stupro: si scava nella loro vita, si cercano elementi legati a una “eccessiva emancipazione”, si tende a giustificare un reato aberrante utilizzando argomentazioni folli ma culturalmente diffuse. Il dramma cambia forma, diventa un’immagine reversibile che, se capovolta, acquista un significato diverso. Come quei giochetti di illusioni ottiche in cui guardi un’immagine di un cavallo, poi la capovolgi e diventa un uomo con il cappello. Se pur si tende a creare un’immagine reversibile della violenza, tirando in ballo tanga, segnali inequivocabili, atteggiamenti provocatori, uno stupro dovrebbe sempre rimanere tale.
La sentenza shock ha scatenato un’ondata di indignazione sui social media dove, a colpi di hashtag #ThisIsNotConsent, gli utenti hanno postato foto della loro biancheria intima per puntare il dito contro la tendenza a colpevolizzare la donna che ha subito uno stupro.
In Italia, una donna su tre ha subito una violenza fisica o sessuale, ma la percentuale di chi denuncia è bassa e solo per la metà degli iscritti in procura si avvia un’azione penale. La mentalità de “te la sei cercata” miete vittime ogni giorno, generando erroneamente un senso di colpa martellante. Alla fine sono sempre le donne a cercarsela, a provocare con abbigliamenti succinti, a ubriacarsi, a uscire in ore improprie. Ciò riconduce a una regressione culturale che riporta da una parte le donne a prede, dall’altra gli uomini nelle vesti di cacciatori incapaci di controllare i loro istinti biologici.
Una gonna, un jeans, un top, un vestitino, dei pantaloncini non sono segnali di consenso. Un tanga può cambiarti la vita? Un tanga non deve cambiarti la vita, #ThisIsNotConsent.
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