Il viaggio di Céline tra le tragedie umane del Novecento
di Ivan Ariosto
É una voce singolare, quella di Louis-Ferdinand Céline. Cinica e sconveniente. Troppo antitetico rispetto allo spirito borghese del suo tempo il medico francese, autore di uno dei maggiori capolavori letterari del Novecento.
Se n’è andato agli inizi degli anni Sessanta Céline, chiuso nella sua casa di campagna a Meudon, in volontario esilio dal mondo circostante.
Si è esiliato lui, prima che lo esiliassero i critici letterari di ieri e di oggi. Troppo scomodi i suoi sfoghi antisemiti, al punto tale da sotterrare il realismo dei suoi romanzi, dei suoi racconti, dei suoi pensieri sull’essere umano.
Alla sua morte, La Stampa lo ricordò con un breve articolo in cui lo scrittore fu definito «l’anarchico che predicò il razzismo», e venne liquidato come autore dal “successo fugace” di libri “pieni di oscenità, scetticismo e odio”.
Ma l’«ebreo» céliniano – lungi dall’essere il simbolo di un popolo, della sua religione e della sua storia – costituiva, per lo scrittore francese, il simbolo del capitalismo sfrenato, della dittatura del denaro, della dilagante tendenza all’accumulazione, della standardizzazione che cominciava ad attanagliare la vita quotidiana dell’individuo all’inizio del secolo trascorso, della tecnocrazia e di quella burocrazia – intesa in un’accezione Kafkiana – il cui peso finiva per gravare sui più deboli.
Sono le miserie umane le protagoniste del flusso di coscienza in cui si articolano i romanzi céliniani, dove l’umanità è raccontata senza ipocrisia, senza demagogia, in modo spietato e sprezzante: in modo vero.
Proprio la verità è stata la sua ossessione, una verità espressa – anche al costo di suscitare una tempesta di polemiche – con quel linguaggio popolare del tutto opposto all’uso forbito del francese adoperato tradizionalmente dagli autori transalpini. Uno stile innovativo massacrato dalla critica di quel periodo, a cui lui replicò: «è concesso di descrivere le peggiori infamie, ma non in un modo che gli dia verità».
Il suo “Viaggio al termine della notte” racconta l’insensatezza del primo conflitto mondiale, la violenza della schiavitù in Africa, la vita nelle grandi metropoli americane, l’ascesa di quella piccola borghesia parigina cinica e faccendiera, che sancirà poi il trionfo del consumismo. Lo svago della “Belle èpoque” contrapposto al degrado sociale e agli squilibri politico-economici di un’Europa che, a distanza di pochi anni, si vedrà teatro del secondo conflitto mondiale.
Quella “notte” attraversata dal protagonista Bardamù, non è quella della morte, ma quella della vita, è il buio morale dell’esistenza che non risparmia nessun individuo, nessun mondo e che si estende dal vecchio al nuovo continente. È un viaggio condotto da un uomo “tormentato dall’infinito” – lo definì lo stesso autore – che non riesce a ritagliarsi il suo spazio nel mondo, e per questo animato da una continua foga di spostarsi, di scappare via, alla ricerca di rifugi sempre più lontani nei quali immergersi.
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