di Giulio Scarantino
“Non è esotico, è vitale” (N.E.E.E.V) la mostra fotografica di Begoña Zubero, fotografa e artista di Bilbao, che è stata in esposizione l’ultima estate al Palazzo Moncada di Caltanissetta, è arrivata adesso nella capitale. La personale della fotografa sarà visitabile al Museo di Roma in Trastevere, Piazza S. Egidio 1b, fino al 22 maggio dopo l’inaugurazione del 20 gennaio dell’artista e dell’addetto culturale dell’Ambasciata di Spagna in Italia, Carlos Tercero. (fonte Corriere delle Sera). Qui la recensione della mostra che per diversi mesi è stata ospite del luogo simbolo della cultura della città di Caltanissetta.
La mostra è composta da 18 fotografie che ritraggono la città di Mosul nel 2019, pochi mesi dopo l’attacco e la resa dello stato islamico, nei giorni della ricostruzione. Il tentativo della fotografa è stato quello di preservare innanzitutto la memoria di quel momento storico, di qualcosa che a breve non sarebbe più esistito, coperto dal cemento e la corruzione della ricostruzione. L’istantanea di quella fase polverosa tra macerie e ricostruzione, breve sollievo e ritorno alla quotidianità, l’unico momento davvero vitale tra la preghiera della fine e la paura-che diventa attesa- della distruzione. Non è la prima volta che l’artista basca trovi nella preservazione della memoria il fine ultimo della sua arte, sempre però da prospettive diverse e soprattutto mai prima di questo lavoro dall’angolazione di un territorio di conflitto. Per questo il racconto di Begoña Zubero è prima di tutto artistico oltre che inevitabilmente anche documentaristico.

Nella scelta del formato, dei colori, delle messe a fuoco c’è tutta la volontà di raccontare nella maniera più possibile distante dalla retorica, dal sensazionalismo o dalla compassione le rovine di Mosul. In un rapporto pari tra visitatore e visitato, tra occidente ed oriente, per evitare che la compassione sia il primo passo per esorcizzare la realtà, relegandola in uno spazio a noi distante. Forse per questo l’artista si muove in un equilibrio di colori, pudore e delicatezza. Per vincere anche la sfida più grande per chi opera in una zona di conflitto: il rispetto della propria coscienza e della sfera etica quando si racconta la tragedia e la distruzione, facendone di questa arte.
Le diciotto fotografie infatti sono innanzitutto opere con una vita propria, senso artistico, a prescindere dal racconto, ma che nello stesso tempo il racconto inevitabilmente condiziona. Con una ricerca stilistica e di composizione della fotografia che si mescola con il significato, producendo un’opera d’arte a tutti gli effetti.
Ci spiega l’artista basca: “Per un fotografo la distruzione e le macerie sono uno spunto incredibile di fotografia, di studio, di ricerca e di composizione”.Non c’è dubbio però che il racconto del ruolo dei luoghi ritratti conferisce a questi un filo narrativo ancora più incisivo e coerente, ma soprattutto lascia al visitatore la sensazione vivida di essere all’interno di una scenografia svuotata dal suo “spettacolo”, che in questo caso è la realtà. La realtà della vita e della morte, della sconfitta e della speranza, del sollievo e della resistenza, del pericolo e della paura, in un sipario ormai chiuso per sempre. Tra i luoghi con particolare significato viene ritratto l’ospedale devastato, l’università e la biblioteca completamente rasa al suolo con il simbolo della totale eradicazione della cultura; l’esatto luogo di conflitto tra le due parti, con il fiume della “civilizzazione” Eufrate a dividere i due fronti, spettatore questa volta della sua antitesi: il genocidio. Oppure ancora l’ultimo luogo d’incontro dei militari dell’ISIS prima della decisione della ritirata o il “Califfato” dove invece tutto ha avuto inizio. Eppure in ogni luogo con un valore storico o documentaristico forte, l’artista riesce a far concentrare l’attenzione sulla sua narrazione: i simboli della resistenza.

Dalla quotidianità che riprende il proprio posto, tetti di chiese e scheletri di monumenti che restano in piedi, ai simboli minori ma che nella loro apparente insignificanza nascondono un’incredibile potenza. Per concludere con le due fotografie che toccano più da vicino la vita e forse l’anima di Begoña Zubero, dove una ritrae un’insegna con l’immagine di una macchina fotografica e l’altra con due tele dipinte prima conservate e poi esposte, scampate alla furia iconoclasta dell’ISIS. Allo stesso modo dell’arte e della fotografia che riescono a mimetizzarsi e resistere per risorgere sempre, come la mostra di Begoña Zubero prima conservata e rimasta chiusa nel Museo di Palazzo S. Elia di Palermo, per la furia inaspettata del Covid-19 di un anno fa, e che adesso vuole risorgere con tutta la sua forza.

Articolo pubblicato su La Sicilia / fotografia copertina di Ettore Maria Garozzo
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