di Marina Castiglione

Tre quarti del nostro 2020 sono trascorsi tra DPCM, limitazioni di movimento, file di camion all’uscita degli obitori, medici in trincea, speranze di vaccini, lezioni a distanza, musei vuoti e sale cinematografiche chiuse, genitori lontani dai figli o genitori trasformati in maestri, blocco delle attività produttive. Nove mesi non sono pochi e forse altri simili, augurabilmente meno pressanti, ci attendono.
In questi mesi abbiamo imparato a convivere con sanificazioni, disinfettanti all’ingresso di ogni luogo pubblico, mascherine. Già, le mascherine. All’inizio apparvero i meme che ironizzavano su forme e posizionamenti improbabili; poi comprendemmo che non era una gara di ironia e sarcasmo e cominciammo a cercare quelle più efficaci; infine, ci abituammo a guardare gli altri soltanto a partire dal naso in su, immaginando ciò che restava nascosto e sorprendendoci a scoprirlo diverso, al momento dello “smascheramento”, da ciò che avevamo tentato di compattare, con un puzzle facciale.


Ma, in un momento di mascheramento mondiale, il vero “smascheramento” è stato altro e non ha riguardato i volti. Perché l’uomo (singolo e come soggetto collettivo) si disvela in due momenti: quando ricopre ruoli di responsabilità e quando è sotto stress. E questo 2020, nonostante non fossimo in guerra né sotto dittatura, non ha fatto mancare compressioni nella psicologia privata e pubblica.
Tra i disvelamenti, nella prima e nella seconda fase dell’epidemia, si è palesato che: la sanità lombarda non è in fondo quel paradiso di efficienza che avevamo elevato a standard nazionale; se si parte da un tessuto economico solido si può resistere sino a dopodomani, ma se si parte da una precarietà endogena non c’è alcuna luce sull’immediato domani; le sbandierate indennità-covid date ai medici con turni di 48 ore sono di molto inferiori ad un reddito di cittadinanza e si approssimano allo zero; la scuola-cenerentola ha retto nonostante i balletti sulle spalle dei dirigenti e dei docenti, ma per la sua resilienza ha avuto soltanto dei banchi con le rotelle e non ovunque (di indennità-schermo, invece, neanche a parlarne…); pur di alienarsi in un apericena di massa, molte persone apparentemente razionali e dotate persino di alti titoli di istruzione sono disposte a rischiare la vita dei propri conviventi; la libera circolazione non è un assioma delle società contemporanee se basta un virus a bloccarla con tutto ciò che ne è conseguito; i mega esperti sono rispettabili nei momenti ordinari, ma in quelli straordinari valgono tanto quanto una urlatrice del mercato di Palermo; di alcuni politici si attendono le esternazioni come se fosse l’ultima serata di avanspettacolo; di altri politici si può affermare che dicono e si contraddicono dal volgere della mattina sino alla sera; di altri ancora che sguazzano come cecchini alla ricerca di un angolo cieco da cui colpire per futuri piazzamenti o per inattese e comode elargizioni di ristori, del tutto alieni dalla realtà delle paure e dei problemi economici delle famiglie.

In generale, siamo stati tutti mediamente credibili nei nostri ruoli sociali sino a quando il COVID-19 non ha mostrato fragilità e inconsistenze che si/ci reggevano dentro la comfort zone di una società “evoluta” a parole. Ma la pandemia mondiale è stato un detonatore di egoismi e viltà, vocazioni alla delazione e al sotterfugio, comportamenti stupidi e disposizioni illogiche, psicologie barcollanti e capacità argomentative da scuola materna. Se qualche millennio di civiltà occidentale, comprensiva di pensiero aristotelico, kantiano e positivo, ha prodotto uno sconquasso tale da dar spazio a terrapiattisti e virologi della
domenica; se la democrazia è stata scambiata per l’annullamento delle competenze e lo sconfinamento impudico del nulla che “sa” di qualcosa; se si è data priorità alle discoteche e agli impianti di risalita, anziché ai teatri; se un Presidente della più grande democrazia occidentale gioca capricciosamente a fare l’arbitro delle regole elettorali; se l’economia mondiale non sta pensando ad altro se non a dare ristori momentanei anziché approfittarne per rivedere sistemi di crescita, nuove solidarietà sociali e rapporti internazionali; se tutto questo viene interpretato come una battuta d’arresto momentanea, nell’attesa di ritornare ad intraprendere la nostra corsa collettiva verso la distruzione del pianeta e, in definitiva, di noi stessi; allora, come è accaduto altre centinaia di volte nella storia, non avremo imparato nulla e questo 2020 si chiuderà come una parentesi penosa e da maledire, senza averne tratto alcun insegnamento.


Perché forse ce n’è stato qualcuno? Sì, nonostante le vicende drammatiche, qualcosa si può raccogliere di questo tempo dentro il nostro tempo: il silenzio, la natura che si riprendeva i suoi spazi, aver sentito soltanto le persone che realmente costruiscono la rete dei rapporti significativi di ciascuno, le catene di solidarietà di prossimità, stare con se stessi, il ridimensionamento di “necessità” spesso effimere, l’inventarsi modi nuovi per fare cultura e generare bellezza, aver imparato a usare le tecnologie per scopi non passivi, aver tenuto in piedi tra mille difficoltà il rapporto con i più giovani. Ma se tutto ciò non diventa tema in una agenda educativa di comunità, torneremo a mascherarci dietro la grande farsa dello sviluppo, replicando tutti gli errori di sempre: toglieremo le mascherine, senza neanche esserci resi conto delle altre
maschere con cui conduciamo la nostra vita.
E, quindi, buon 2021 a tutti noi che attraversiamo, grati e sbigottiti, questo inizio di terzo millennio!