di Federica Dell’Aiera

C’è una donna che non ha fatto nulla di male e un uomo che compie un reato, quello di diffondere il materiale intimo a terzi, precisamente nella chat del calcetto, senza consenso. Succede che qualcuno riconosce la donna in questione nella maestra del proprio figlio e questo qualcuno, un’altra donna, si indigna segnalando l’accaduto al dirigente della scuola che licenzia, dicono per giusta causa, la donna protagonista del video. La donna oltre a perdere il lavoro, è diffamata e messa alla gogna. 

Ci sono tante cose che non vanno in questa storia e tutte minano e puniscono la donna in quanto donna. C’è un reato disciplinato dalla legge beatamente ignorato e mascherato da goliardata 

Cercando la definizione possiamo leggere questo: 

s. f. [der. di goliardo]. – Azione, impresa, discorso o affermazione che hanno il carattere dell’improvvisazione, della leggerezza, della spacconata, e nello stesso tempo dell’audacia, dell’arditezza, della baldanza non conformistica tipiche dei goliardi (nel senso antico e moderno della parola): fare, dire una goliardata.

Leggerezza, spacconata e audacia per un gesto che invece è un reato, un gesto dettato dal più becero maschilismo, dal patriarcato e da quella morale cattolica che ancora punisce il normale piacere sessuale e addita allo scandalo. Se poi ad avere una NORMALE vita sessuale sia una donna il cui lavoro è quello di prendersi cura dei bambini lo “scandalo” sembra avere ancora più peso.

Ma è normale ai giorni nostri pensare che una donna, fuori dalla propria sfera lavorativa non abbia una vita sessuale? È normale indignarsi per un atto che, naturalmente tutti compiamo? 

Il concetto di base du questo reato è la possessione, la convinzione di poter possedere l’altro e la sua immagine al punto di poter farne l’uso che desideriamo. Un gesto vile mosso da qualche sconosciuta motivazione, ma che pensandoci bene racchiude benissimo le intenzioni del gesto. 

Chi agisce sa che, come donna, la vittima verrà allontanata, giudicata e screditata proprio in quanto donna.  Si parla di revenge porn, un termine che descrive questa orrenda e diffusa pratica, seppur il termine pornografia sia sbagliato poiché quest’ultima è consensuale, mentre qui non c’è nessun consenso. Ma l’uso della parola porno finisce proprio per legare l’immagine femminile a qualcosa di consumo erotico e assume poi le sfumature che già abbiamo accennato. E perchè poi tutto ciò non è già abbastanza, ci troviamo a ricevere giudizi morali che condannano la vittima per qualcosa che non ha fatto. Perchè si, mandare delle foto intime al proprio fidanzato non è reato, registrarsi durante una notte di piacere non è reato, ma “Se non volevi che le tue foto finissero su internet dovevi evitare di farle”. È victim blaming e mai nulla cambierà se punire la vittima è l’unica narrazione accettabile del fatto. Fatti che vengono narrati come atti leggeri perchè a compierli sono uomini e queste “cose da uomini” sono leggere, fatte senza pensare, fatti per divertimento e non per arrecare del male a qualcuno. Tale narrazione che giustifica i fatti e mina la credibilità della vittima, consolida una cultura malata e non slega il sesso dai giudizi sociali e dal peccato e che da piacere si trasforma in minaccia per la credibilità, la professionalità e la vita. Sopratutto se sei donna. E non basta poi nemmeno il “Codice rosso” (che dal 2019 introduce il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate”).

Fosse stato un maestro, sarebbe invitato in qualche trasmissione di terz’ordine, per scoprire come “un piccante incidente hot lo abbia trasformato nel maestro più sexy d’Italia”.