di Federica Falzone
Il periodo di sconvolgimenti, timori, lutti e privazioni che stiamo vivendo è indubbiamente un momento storico di grande rilievo che ha, avrà, potrebbe avere ricadute cospicue a livello psichico, sociale, economico. Siamo impegnati a tutelare la nostra salute fisica, quella di chi ci sta accanto, siamo impegnati a “sopravvivere” grazie e dietro le azzurre mascherine.
Il cupo pensiero verte su preoccupazioni che riguardano la morte, la perdita del lavoro, l’incertezza del virus ancora poco conosciuto, l’assenza di una possibile soluzione. Oltre il terribile scenario che riguarda la salute, oltre ciò che accade negli ospedali, oltre il meraviglioso lavoro di chi vi è all’interno, all’esterno per “studiare”, “agire”, “difenderci”, “proteggerci” avviene tanto intorno. Ci siamo mai resi conto di quanto già stiano cambiando i nostri modi di “entrare in contatto”?
Sicuramente è impossibile non accorgersi, non considerare i mutamenti, quel cambio direzionale che avviene nel modo di esserci, di star seduti, di presentarci “senza strette di mano”, di incontrarci senza abbracciarci. E’ indubbio ed innegabile che stare vicini oggi significa stare lontani, amarsi vuol dire essere distanti. Potrebbe oggi riemergere, in versione rivisitata, modificata e attualizzata, la sempre eterna storia del dilemma del porcospino di Schopenhauer.
In questo periodo di pandemia e paura, di speranza e buon auspici quotidiani sibilati, suggellati, stretti alle mani per non farli scivolare basta osservare, anche distrattamente, ciò che accade ogni giorno per constatare quanto si siano oramai ancorate alcune “nuove usanze”. Lavoro in una Residenza sanitaria del nord Italia e ho assistito all’evoluzione “obbligata” dell’incontro di familiari e anziani e ho sperimentato il cambiamento nel modo di “fare supporto psicologico”. Ma quel che voglio condurre fra queste righe è lo stupore che mi ha suscitato la quotidianità nella mia terra in questo periodo assurdo.
Sono tornata per rivedere i miei cari in Sicilia, titubante, preoccupata, ansiosa. Il desiderio di risentirli accanto, di ripercorrere le strade della mia città era fortissimo ma altrettanto intenso il timore di non tutelarli abbastanza. Per questa ragione, dopo aver eseguito un ulteriore tampone (sono sottoposta a controlli frequenti in quanto entro a contatto con utenti fragili e anziani nel mio contesto lavorativo), mi sono equipaggiata di dispositivi di protezione individuali e igienizzanti e abbiamo affrontato il viaggio. Solitamente arrivare, soprattutto per un siciliano, significa essere accolto da calorosi e quasi “invadenti” abbracci, da fracasso e clamore, da baci con “scroscio” e un elenco dei numerosi pranzi di famiglia da affrontare.
Nessuna “tavolata” da venti, trenta invitati in cui non bastano le sedie e allora i giovani si possono accomodare sulle panche o sui braccioli dei divani. Nessun “soffocamento” tra le braccia di mamma e papà. Per fortuna, gli occhi sorridono anche con le mascherine e il nostro linguaggio esplicito con ogni forma di gestualità rimanda il calore di sempre. Infatti, al bar (ancora non chiusi secondo le indicazioni del nuovo dpcm), lo stesso incontro tra amici appariva scarno, incompleto. Un metro e mezzo da una sedia e l’altra, grandi cerchi simil gruppo di auto-aiuto e, successivamente, più tavoli perché tutti insieme distanti non è più abbastanza.
Si procede con colpi di gomito o colpi di scarpe come piccole lotte, bizzarri balletti per dimostrare la voglia di stringersi, la gioia di rivedersi. Il colpo più grande lo si accusa quando giunge il momento di salutare nonni e zii. Mille tentativi, strategie elaborate per evitare il peggio ma sentirli vicini. Ed è così che si prova ad avviare una conversazione dalla finestra perché non si può andare nel paese degli zii tanto amati e non salutarli. I baci inviati sono miliardi. Giungono al cuore. Il suono della loro voce è già avvolgente. E così si cerca di resistere anche con i nonni, quella voglia di abbracciarli, di tenerli stretti consapevoli che il tempo non sarà infinito. Eppure questa volta non si potrà e dentro si prega che il “virus”, che il “tempo” sia clemente, gentile e ci riservi la possibilità di attendere la fine di questa pandemia per poter stare in silenzio per ore in un abbraccio.
Andar via porta delle lacrime, non poterle asciugare dentro un saluto rattrista ancor di più. Lascio la Sicilia con il suo sole radioso, i banconi stracolmi di frutta di martorana e il desiderio di riaccendere il “Compà”, il “vi voglio bene” con una stretta di mano possente come prima accadeva. Lascio la mia terra di sole e di zagare con la speranza di risentire vicina la pelle dei miei cari, di ritrovare il volto dei nonni scevro di ansie, addolcito da rughe, reso magro dagli anni sì ma privo di paure. Questa assenza di contatto, questa distanza ci porterà almeno una maggiore capacità di riflessione, di dialogo, uno sguardo più profondo e paziente?
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