foto di Danilo Napoli

di Luigi Garbato

Il “M’Arricrio Rock Fest” e il “Dolce Sicily”, promossi dalla nuova amministrazione comunale nell’autunno/inverno 2019 per permettere ai nisseni di ascoltare musica dal vivo e gustare prodotti gastronomici, pur magari non sempre riconducibili alla tradizione locale, hanno lasciato spazio quest’anno, anche per esigenze economiche e organizzative dovute all’emergenza sanitaria, alla Cultura, alle intelligenze locali e alla creatività degli artisti nisseni.

Il centro storico si è trasformato così in un’agorà di confronto, di dibattito e di conoscenza: non importano i numeri delle presenze, ogni incontro ha seminato qualcosa che certamente durerà più a lungo dell’allegria da bisboccia in piazza (che ogni tanto male non fa, s’intende!). 

In questo contesto di vivacità culturale meritano di essere ricordati due recenti interventi: la riqualificazione artistica e letteraria di alcune saracinesche in centro storico di Carlo Sillitti e la grande installazione di Alberto Antonio Foresta che come un’onda di indumenti – tutti di nisseni, che emigravano e continuano a emigrare! – parte dalla salita Matteotti e si infrange su corso Umberto I imponendo a ciascuno di noi una riflessione sull’umanità e sulla disumanità rapportata alla tragedia degli sbarchi. L’arte torna a interpellare le coscienze: quell’onda è una domanda senza spazio e senza tempo, che interroga tutti noi senza esclusioni. “Noi, come specie Homo Sapiens, siamo stati sempre migranti siamo usciti dall’Africa 60 millenni fa e da allora non ci siamo mai fermati occupando tutta l’Eurasia e poi le Americhe. Di generazione in generazione lo spostarci, questa nostra tentazione infinita di voler vedere che cosa c’è al di là della collina, ci ha portato ovunque. Questo ha avuto conseguenze negative, come il fatto che abbiamo ridotto la biodiversità, ma anche positive perché il migrare ha reso il nostro cervello più flessibile, ha accelerato la nostra evoluzione culturale, ci ha insegnato a modificare il mondo attorno a noi per renderlo più adatto a noi, piuttosto che il contrario” (Telmo Pievani, docente dell’Università di Padova).

Si riconosce in questi e altri interventi il segno tangibile della volontà di migliorarsi aprendosi alle novità, alla riflessione, ma salvaguardando il passato e le tradizioni. In tal senso, ancora una volta, mi piace ricordare l’azione congiunta del Rotary e del Lions per il restauro delle due lastre borboniche di Valerio Villareale che meritano adesso di essere esposte adeguatamente in un luogo fruibile sempre a tutti, quale può essere la Galleria Civica d’Arte di Palazzo Moncada. Spero, sotto la spinta della felice svolta culturale di questo autunno, che la città abbia la forza di sognare in grande mettendo in atto una serie di piccole azioni concrete che ci avvicinino sempre più alla meta desiderata, fatta di interventi duraturi che diano solidità culturale e identitaria alla comunità nissena.

Innanzitutto il restauro dei busti della Villa Amedeo – finanziato dalla Giunta Ruvolo con il bilancio partecipativo 2018 su proposta del Lions ma non ancora esecutivo, anche se il procedimento amministrativo sta andando avanti – e il restauro di Palazzo Moncada di cui adesso sono stati aggiudicati i lavori che bisogna avviare al più presto mettendo a frutto il finanziamento ottenuto dalla precedente giunta. Per queste ragioni alla nuova amministrazione torno a chiedere un progetto concreto per Palazzo Moncada, perché diventi davvero il museo della città, capace di documentarne non solo l’esperienza artistica della scultura ottocentesca ma anche le esperienze locali nel campo dell’arte contemporanea, la parabola letteraria da Rosso di San Secondo ai due Sciascia, il passato contadino e minerario, il legame con il cibo devozionale, i riti e le tradizioni legate alla Settimana Santa. E una sua gestione in grado di sostenere la sfida con gli altri musei civici dell’Isola, come Castello Ursino a Catania o il complesso di S. Anna a Palermo. Nella mia visione di città questi due luoghi – la villa Amedeo e Palazzo Moncada – una volta recuperati, potrebbero costituire solidi punti di partenza per alimentare un sano senso di appartenenza e recuperare un’identità culturale che negli anni si è andata perdendo.