di Agnese Curione

Chiacchierando con amici, familiari, conoscenti, ho realizzato che in un qualsiasi momento della conversazione, prima o poi sarebbe venuto fuori un argomento frutto di una certa convinzione (o meglio, ho poi realizzato, di una certa paura): che il periodo trascorso in quarantena ci avrebbe resi migliori, forse più forti, più vicini e solidali perché la distanza, la privazione della socialità e di quelle fantomatiche “piccole cose che ci rendiamo conto di avere solo quando le perdiamo”, ci avrebbero aperto gli occhi e spronati a dare il nostro meglio.


Ecco, queste argomentazioni sono piene di speranza e positività, però alla base di tutto, c’è qualcosa che mi turba: perché abbiamo bisogno di una circostanza tanto tragica ed estrema per capire che spesso siamo ingrati nei confronti di tutto ciò che concerne la nostra esistenza? Perché cerchiamo così disperatamente delle motivazioni esterne a noi stessi prima di riuscire ad ammettere che possiamo essere migliori di così?
In certi momenti ho pensato che quest’argomento fosse spesso buttato lì, in mezzo ad un discorso giusto per tirar fuori qualcosa di cui poter conversare. Hai visto che sole oggi? devo andare in farmacia a ricomprare l’amuchina. Chissà quanto saremo migliori al termine di questa quarantena.


Però poi ho riflettuto e ho cominciato a credere che si trattasse piuttosto di un meccanismo di difesa inconscio.
Credo che tutti noi abbiamo pensato nelle più svariate circostanze che avremmo potuto fare di meglio, uno sforzo in più, eppure non l’abbiamo fatto e la maggior parte delle volte crediamo che ciò sia accaduto a causa di motivazioni esterne, la principale delle quali è la mancanza di tempo. È proprio il tempo ciò che ci manca quotidianamente, quel mostro cattivo che ci impedisce di essere la versione migliore di noi stessi, che ci stressa a tal punto da non riconoscere le centinaia di fortune e cose positive che compongono la nostra vita perché il nostro focus è costantemente orientato verso quelle due-tre cose che durante la settimana sono andate storte. Ed è qui che s’insidia la paura. Avendo vissuto circa due mesi in cui il tempo ha allentato la sua morsa, abbiamo effettivamente avuto l’occasione di dedicarci maggiormente a certe relazioni (a distanza), passioni e progetti, abbiamo avuto modo di sentire la mancanza di persone e abitudini considerate spesso anche noiose, così da comprendere quanto effettivamente fossero importanti certi aspetti della nostra quotidianità.
Ma se tali riflessioni fossero frutto della noia, di uno sfogo, quindi circoscritte unicamente all’attuale periodo? E se in realtà il motivo per cui non siamo migliori non fosse la mancanza di tempo? Del resto io credo che, intimamente, chi affermava che saremmo stati migliori, non si riferisse davvero anche a se stesso, perché ammettere di poter essere migliori significa mettere in dubbio la propria persona, e mettersi in discussione significa essere più umili e propensi ad ascoltare/ascoltarsi. Ma in fin dei conti è più facile rimanere sui propri passi e si sa, le promesse fatte quando ci si sente in colpa o perché si crede di non aver scelta non vengono mai mantenute, un po’ come quando ci si abbuffa di dolci e poi si dice “da domani inizio la dieta”.


Forse le aspettative generali erano troppo alte, difatti è da un po’ che non sento più parlare di questa storia dell’essere migliori al termine della quarantena. Un po’ perché la quarantena è finita, un po’ perché la vita sta tornando ad assumere il suo ritmo considerato naturale, un po’ per la delusione di scoprire che, forse, il processo per essere persone migliori non sarà portato a termine dalla sola consapevolezza di stare dentro ad una pandemia globale.
Come si suol dire, “la speranza è l’ultima a morire”, ma nel frattempo, la questione continua ad essere molto più semplice di come vorremmo che fosse: le persone non migliorano perché, banalmente, non credono di averne bisogno.