Intervista di Irene Bonanno

Giovanna Caruana, psicoterapeuta che opera da diversi anni tra San Cataldo e Caltanissetta, e poi anche cantautrice e autrice di un romanzo giallo ambientato a Caltanissetta, risponde ad alcune domande. Come stai vivendo questo periodo di quarantena nella tua esperienza di psicologa e psicoterapeuta soprattutto?

Irene, intanto permettimi di ringraziarti per avermi invitato a riflettere insieme a te su questo periodo che stiamo vivendo. Il Covid-19, infinitamente piccolo quanto virulento e pericoloso, ci ha costretto a ritirarci nelle nostre case, nel nostro spazio domestico e familiare. Come moltissimi, anche io lavoro da casa e faccio il possibile per stare vicino ai miei pazienti per evitare, anche se è difficile, che perdano il filo del loro discorso. Ognuno di loro infatti era impegnato in una rinascita personale e sociale, a rimettersi in gioco, a portare avanti il proprio percorso di realizzazione sociale, sentimentale o professionale. Tutti hanno dovuto in qualche modo “mettere in stand by” alcuni dei loro obbiettivi e mettersi davanti questa montagna da superare: il virus e tutto quello che comportava, soprattutto in termini di insicurezza e rinunce.

Ecco, secondo te come abbiamo affrontato finora, dal punto di vista psicologico, questa “montagna”? E come possiamo prevedere di affrontarla d’ora in avanti?

La paura del contagio all’inizio ci ha aiutati tutti, poiché ci ha fatto accettare la sospensione dei nostri progetti, indicandoci che la salute è più importante di qualsiasi cosa. Inoltre, vedere amici, parenti, ma anche sconosciuti, morire nel silenzio e nella desolazione ci ha ferito tanto. La paura ci ha costretti a fermarci e, in parte, è stato buono. Oltre a proteggerci, abbiamo riscoperto il tempo e un nuovo modo di impiegarlo, abbiamo imparato che è possibile guardarci dentro e dedicarci spazio e tempo. Non dimentichiamoci, però, che per qualcuno chiudersi in casa vuol dire difficoltà e angoscia quotidiane, per via di situazioni di conflitto familiare che rimangono drammaticamente chiuse tra le quattro mura domestiche. In ogni caso la speranza, per tutti, era di riprendere presto ciò che avevamo accantonato, pur rimettendo in discussione alcuni vecchi comportamenti o abitudini che la stessa terra ci ha rigettato addosso poiché vanno in una direzione per niente armoniosa con l’ambiente. Sono passati due mesi dalla chiusura totale, la fase due è alle porte, ma ci stiamo rendendo conto che la ripresa sarà molto diversa da come l’avevamo immaginata e molto più difficile. Adattamento sarà la parola chiave per affrontare i prossimi passi.

Mi sembra giusto. Ma come possiamo fare ad adattarci, che strumenti abbiamo?

Chiaramente il processo di adattamento sarà diverso per ognuno di noi, perché ciascuno ha il suo modo di percepire e affrontare i cambiamenti intorno a sé. Ma la differenza la farà un buon connubio tra un pensiero fluido e critico, la capacità di gestire la paura e un buon controllo dei propri funzionamenti fisiologici. Il pensiero è critico quando sa soffermarsi sulle sfumature e vede soluzioni percorribili prima che problemi. Proposte anziché lamentele. È anche fluido quando non si irrigidisce su schemi vecchi e preconfezionati, ma si adatta alle situazioni ogni volta che è necessario farlo: è quello che accadrà nei prossimi mesi di convivenza con il Covid-19. Ma senza la possibilità di gestire le emozioni, soprattutto la paura, tutto questo risulterà difficilmente attuabile, se non impossibile. Il virus ha risvegliato le paure più intense e irrazionali: la paura della malattia e della morte, la paura del contatto con l’altro perchè potenzialmente contagioso, la paura di non farcela a superare le difficoltà economiche. Tutte queste paure nascono ovviamente da un’evidenza reale. Ma esistono due tipi di paura, volendo semplificare al massimo. Una paura “buona, fisiologica” che ci porta a comportamenti di prudenza e di cautela per noi e per gli altri: il distanziamento fisico e l’uso di mascherine e guanti, da sempre collegati a disturbi della socialità, oggi diventano l’unico modo per tornare a vivere la socialità nel rispetto della salute e della sicurezza. Poi c’è una paura “cattiva, patologica”, ovvero la paura irrazionale che impedisce di analizzare con lucidità ciò che si può fare e ciò che non si può fare, di vedere le soluzioni possibili, di vedere l’altro con umanità. L’altro diventa un veicolo di possibile contagio, una minaccia. È questo tipo di paura che provoca l’angoscia, poiché ci si chiude ancora di più nella propria ansia, ed è la stessa alla base dell’intolleranza a cui sempre di più assistiamo. Ma una paura irrazionale e intensa può anche provocare l’effetto opposto: la negazione di essa. “Io non ho paura, quindi esco lo stesso quando mi pare, non rispetto la distanza di sicurezza, non metto mascherina e guanti”.

Riflessioni molto interessanti. Ma hai parlato di connubio tra pensiero fluido, gestione della paura e buon funzionamento fisiologico. A cosa ti riferisci in quest’ultimo caso?

Tu sai che l’approccio terapeutico che utilizzo è quello Funzionale, nel quale si mettono sullo stesso piano mente e corpo. L’uno senza l’altra non può permettere la comprensione della persona. Quando ci adattiamo, è tutta la nostra persona che lo fa, mente e corpo. E quindi il nostro modo di respirare agitato o profondo, il nostro tono muscolare rigido o allentato, le nostre sensazioni aperte o chiuse, le percezioni e tutti gli organi e gli apparati interni, tutte queste “Funzioni” concorrono, insieme a pensieri ed emozioni, all’adattamento, cioè al buon funzionamento dell’organismo.  Se sono in armonia e ben integrate tra di loro, ci permettono di adattarci meglio ai cambiamenti.

Mi piacerebbe, a questo punto, approfondire il punto di vista dei bambini e dei ragazzi. Nei decreti si parla paco o niente di loro. Ma soffrono tanto della privazione dei loro spazi fuori casa e delle loro relazioni. Nella fase due potranno cominciare ad uscire, con delle limitazioni da rispettare. Come li possiamo aiutare?

Nei bambini non c’è solo il bisogno di movimento, che c’è anche negli adulti, ma loro crescono, si sviluppano, imparano attraverso il movimento e la socialità. Anche per loro valgono le stesse regole che ho esposto prima, anche loro si adattano integrando mente e corpo, anzi, spesso ci stupiscono per essere più veloci e più pronti di noi nel farlo. Dobbiamo parlar loro con franchezza, spiegare bene che finora abbiamo combattuto il virus stando a casa, ora lo continueremo a combattere anche fuori casa, nei casi consentiti, usando mascherine, guanti, disinfettando più spesso le mani e mantenendo la distanza di sicurezza per rispetto degli altri e di se stessi. Se dovremo convivere ancora per molto tempo con il virus, allora dobbiamo pensare anche a dar loro spazi e strumenti per difendersi da esso, mantenendo intatta la loro sensazione di essere parte dell’ambiente circostante e poterlo vivere con le dovute cautele. Devono anche poter tornare a vivere la socialità adattandosi a dei modi alternativi di entrare in contatto con gli altri. Potremmo proporre loro nuovi rituali che sostituiscano quelli pre-covid, i quali non sono vecchi e da abbandonare, ma solo temporaneamente non utilizzabili. Se sapremo spiegare bene le cose, saranno in grado di capire e ci sorprenderanno per la loro versatilità e creatività. Potremmo anche lasciare che siano loro ad “inventarsi” queste nuove regole: nuovi saluti, nuovi modi per esprimere le emozioni con i movimenti “a distanza”, e la possibilità sempre aperta di esprimere con le parole quello che provano. Ma nel frattempo correre, saltare, sbucciarsi le ginocchia, sudare, gridare all’aria aperta, sono cose che non possono mancare troppo a lungo nella loro crescita. Gli adolescenti? Hanno capito il momento difficile. Anche se a volte non esprimono il disagio perché tendono a chiudersi facilmente nelle loro stanze tra video-lezioni, video-chiamate, musica, serie tv e giochi, non pensiamo che stiano incassando bene il colpo. Ci illuderemmo. In realtà, nella maggior parte dei casi, hanno nostalgia di tutto e si accontenterebbero di pochi istanti di “quasi normalità”. Il rischio è che perdano la fiducia in un miglioramento. Riporto le frasi di C. (19 anni) «Ce lo siamo proprio meritato sto virus» e di G. (18 anni) «Ma a che serve studiare, impegnarsi, tanto non posso fare niente!» In queste frasi vengono fuori tutta la loro rabbia e il senso di impotenza. Non dimentichiamoli nelle loro stanze, non diamo per scontato che si stiano abituando. Parliamo con loro e aiutiamoli a tornare fuori, in un mondo che sarà diverso e strano come lo sarà per noi.