di Carlo Vagginelli

Ciascuno di noi conserva un calendario – sia esso materiale o ideale – su cui annotare gli eventi più significativi ed importanti della propria vita: la data di nascita, il giorno della laurea, l’anniversario di matrimonio, il compleanno del proprio figlio.
Allo stesso modo, ogni comunità ha un proprio calendario civile, che concorre a costruirne la memoria e l’identità collettiva. In Italia, ad esempio, fin dalla conquista dell’unità nazionale emerse l’esigenza di una ritualità che integrasse il ciclo festivo della Chiesa cattolica. La classe dirigente figlia del risorgimento celebrava quindi la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 e il movimento operaio si batteva per poter festeggiare il Primo maggio quale “parola d’ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento” .


La stagione repubblicana è stata accompagnata dall’arricchimento di questo calendario e nuove celebrazioni si sono aggiunte o hanno sostituito le precedenti. Alcune di queste date travalicano i confini nazionali (si pensi al 27 gennaio), altre sono figlie della nostra storia nazionale. In alcuni casi la memoria supera i limiti del calendario, evocando un momento esatto e ben definito, come accade per le lancette dell’orologio della stazione di Bologna, ferme alle ore 10:25 dal 2 agosto 1980.


Tutte queste ricorrenze richiamano momenti di una vicenda collettiva, ma non sono immaginate per ripetere ininterrottamente un tempo concluso, né vanno ridotte ad un mero esercizio di conservazione della memoria. Il cuore di questo calendario civile sta nelle prosecuzione di un processo ancora vivo e attuale, di una storia in-divenire e di un futuro tutto da scrivere.
Ciò è particolarmente vero per la festa della Liberazione, nome che allude immediatamente a qualcosa di incompiuto e indefinito, a una conquista che non può essere raggiunta una volta per tutte. Se quel titolo non dovesse essere sufficiente, basterebbe leggere le ultime parole dei condannati a morte della Resistenza per capire che quella vicenda non è il punto di arrivo di una storia passata, ma rappresenta la tappa di un cammino ancora da proseguire: “muoio sereno e coll’animo tranquillo contento di morire per la nostra cara e bella Italia. Il sole risplenderà su noi un domani perché niente di male sono sicuro di aver fatto”.
Quelle parole non sono solamente la nobile testimonianza di un sacrificio individuale, alludono ad un avvenire da costruire, ad un ideale da realizzare, ad una Liberazione da compiere.

La storia della Resistenza può essere compresa solo se si assume questa prospettiva, solo se la si interpreta come processo politico volto alla costruzione di uno Stato finalmente democratico e di una società animata dai principi di libertà e di uguaglianza.
Insomma, l’esperienza partigiana non è stata una leggenda o un miracolo animato dall’eroismo di pochi, è stata soprattutto un’esperienza popolare maturata in anni di lotte sociali e di opposizione clandestina al fascismo, un movimento profondamente radicato nel tessuto civile del paese.
Anche per questa ragione la storia dell’antifascismo nisseno va iscritta a pieno titolo in quella più vasta della Resistenza e della Liberazione. Quella nissena è stata una vicenda straordinaria, animata da uomini come Calogero Boccadutri, Pompeo Colajanni, Leonardo Speziale. Uomini come Michele Calà, impiegato con l’amore dei libri, morto mentre cercava di salvare dal bombardamento la biblioteca clandestina del Partito Comunista, uomini capaci di mobilitare la cittadinanza per costruire le istituzioni democratiche, come accadde a Favara con l’elezione dei Sindaco-ebanista Antonio Amico.


Questa storia merita di essere conosciuta e ricordata, perché mostra il volto più autentico dell’opposizione al nazifascismo e della guerra di Liberazione, il volto di operai delle campagne e delle miniere, di intellettuali e di lavoratori, di donne e uomini animati dal desiderio di liberare e rinnovare l’Italia.
Pensando a quei volti diventa più semplice comprendere che il grande lascito della Resistenza è rappresentato dalla Repubblica fondata sul lavoro e dalla Costituzione democratica, che promette di dare a tutti “pari dignità sociale” e di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Quel testo è il programma politico della Liberazione, un manifesto che la rende straordinariamente attuale e che ci invita ancora oggi all’impegno.


Insomma, la festa del 25 aprile non può ridursi ad una cerimonia formale, soprattutto in una stagione gravida di nuove sfide e di inedite fratture sociali. In questo tempo così difficile ed entusiasmante, l’antifascismo cui siamo chiamati deve sostanziarsi nella lotta per la riduzione delle disuguaglianze e per la costruzione di un modello sociale orientato a criteri di solidarietà e sostenibilità.
Senza questa ambizione, senza questa tensione conflittuale, la nostra democrazia si ridurrà ad una sagra di anime morte e le nostre celebrazioni si limiteranno a ricordare i caduti di una guerra passata. Per dirla con Piero Calamandrei, però, non saranno vivi a celebrare i morti, saranno questi ultimi a convocarci e chiederci cosa abbiamo fatto per essere degni del loro sacrificio.