di Ivan Ariosto

In occasione dell’uscita, il prossimo 22 aprile, del suo nuovo romanzo “La peste nuova” (La Nave di Teseo), lo scrittore Fulvio Abbate ci racconta – tra metafore e paradossi – il rapporto tra il mondo e i pensieri, le aspettative, i valori dell’intellettuale in un’atmosfera sospesa permeata dall’avvento di un’epidemia.

Dopo 24 anni dalla pubblicazione del suo romanzo La peste bis, cosa l’ha spinta a cimentarsi nella sua riscrittura. L’ha ispirata l’avvento del Covid-19?

É accaduto che da Parigi un amico astronomo mi ha scritto di star trascorrendo la quarantena leggendo il mio romanzo, e ha postato la foto de La peste bis, dicendo di averlo rincorso fino a essere riuscito ad acquistarne in rete una copia. É stato allora che mi sono detto: vorrei riscriverlo, ho tutti i titoli per farlo, ho già affrontato il tema un quarto di secolo fa quasi. Ho pensato subito a una riscrittura, non a un aggiustamento del testo, non a caso, pur mantenendo una struttura simile al racconto originale, il romanzo nuovo prescinde da Camus e si interroga in proprio su alcuni paradossi legati al tema della salvezza e dell’inadeguatezza umana.  

Non più La peste bis, ma La peste nuova. Il cambiamento del titolo originario ha un particolare significato?

Semplice, è un altro romanzo e dunque era doveroso immaginare un altro titolo, possibilmente meno prosaico di quel “bis”, termine decisamente burocratico. Pensavo fosse difficile trovarlo, e invece è venuto naturalmente: “La peste nuova”. Come spaesamento rispetto perfino a tutte le epidemie tradizionali, storicamente vissute e testate, in ogni caso non è un libro sull’attualità, non si parla certo di mascherine o di test. 

Tra le novità della nuova edizione del romanzo c’è l’assenza del riferimento alla sua città natale, Palermo, in cui era ambientata originariamente la vicenda. Come mai la scelta di rimuovere Palermo e ambientare il romanzo in un luogo non identificato?

Palermo era il doppio di Orano, dove si svolge il romanzo di Camus, nel nuovo romanzo desideravo un contesto, sebbene realmente possibile e credibile, più metafisico, magico, non per nulla nel corso del racconto il protagonista, anche lui con un nuovo nome, si ritrova a citare scrittori come Raymond Queneau de “I fiori blu” e Georges Perec di “La vita istruzioni per l’uso”; è un romanzo assai più fantastico, nel senso dell’immaginazione e della rottura dei suoi confini e dà più risposte di quante non ne immaginassi, perfino sul tema della sconfitta.

Dal titolo dell’opera è chiaro il riferimento al noto romanzo “La peste” di Albert Camus. Cosa hanno in comune il suo romanzo e quello del noto scrittore francese?

Una spinta filosofica, innanzitutto questo; un interrogativo su una metafisica della salvezza.

Parlando del suo nuovo romanzo su Instagram, ha dichiarato che “scrivere è bello ma riscrivere è ancora più straordinario”. Ci può spiegare perché?

Si, certo, a meno che lo scrittore sia completamente ottuso e convinto di avere già raggiunto la perfezione, che non esiste perché ogni pagina è sempre perfettibile, è invece meraviglioso percepire i propri limiti in un capitolo o paragrafo o semplice periodo fino a cancellarlo, oppure a riscriverlo avendo la percezione della propria crescita sia negli strumenti destinati alla scrittura sia nella concezione stessa di romanzo.

“La peste nuova” è stato definito come un “romanzo sul senso dell’intellettuale di fronte al rapporto tra il mondo e le sue aspettative”. Secondo lei qual è la funzione che l’intellettuale dovrebbe avere? E quale ruolo ha nel mondo globalizzato di oggi?

La domanda è semplice: a cosa serve un intellettuale, uno scrittore, un poeta, un artista in una finestra di tempo nella quale sono richiesti soprattutto infermieri, medici, rianimatori, pneumologi, custodi d’obitorio? Il comunista Neruda, parlando di Rilke, poeta dell’Indicibile, sostiene che: “Parlare di alberi in tempo di guerra è un crimine”. Io questo non lo penso, al contrario ritengo che il crimine sia invece nella banalità, nel luogo comune, anche in senso “civile”, per questa ragione ritengo che il mio romanzo sia un’opera che risponde ai bisogni di una persona che crede nell’immaginazione e nella rivolta. Altrimenti ci sono molti altri lavori non meno soddisfacenti, e questo lo dico precisando il mio orrore per il glamour che da anni segna tutte le attività del fare artistico. Muoia il glamour, non siamo né visagisti né diskjokey.




Fulvio Abbate è nato nel 1956, e vive a Roma.
Ha pubblicato, fra l’altro, i romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013). E ancora, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull’amore” (2018), “I promessi sposini” (2019). Nel 2012, il Collège de ‘Pataphysique di Parigi lo ha insignito del titolo di Commandeur Exquis de l’Ordre de la Grande Gidouille. Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Dal 2004 va in scena con il monologo Il teatro degli oggetti, un one-man show che lo vede protagonista insieme alla sua collezione di cimeli storici.