di Luigi Garbato

In questi giorni tutti noi seguiamo con apprensione le notizie relative all’emergenza sanitaria dovuta al dilagare del coronavirus. È un’esperienza drammatica che cambierà profondamente la nostra società e la nostra economia, in questa fase però l’unica preoccupazione di tutti i cittadini e di tutte le cittadine dev’essere di rimanere a casa per interrompere la catena del contagio.
Esiste però un “fronte caldo” nel quale si combatte operativamente contro il virus: mi riferisco naturalmente al fronte ospedaliero.
In questo momento così difficile per tutti noi ho sentito di raccogliere e di condividere con voi alcune esperienze di miei amici nisseni che stanno lavorando per fermare l’avanzata del covid-19.
Citando il titolo di una celebre serie televisiva, loro sono veramente medici (e infermieri) in prima linea, in alcuni casi “arruolati” all’uopo com’è avvenuto per gli studenti dei corsi accelerati di Medicina e Chirurgia in zona di guerra a Padova durante la Prima Guerra Mondiale.
Ne abbiamo sentite e lette tante testimonianze di infermieri e medici che lavorano instancabilmente per salvare le vite degli ammalati di coronavirus, ma credo che leggere i racconti di trentenni nisseni, lontani dalle famiglie e dagli affetti, ragazze e ragazzi che magari anche voi conoscete, possa incentivare tutti a fare la propria parte in questa lotta contro il tempo per fermare l’avanzata del virus.

ANGELO, 29 anni, medico-chirurgo in formazione in Medicina generale a Caltanissetta:
Faccio turni di guardia medica a Resuttano e Vallelunga. Abbiamo disposizioni di gestire tutto telefonicamente (triage telefonico) e poi, in base alla valutazione del quadro clinico e se sospettiamo o meno la presenza di coronavirus nel paziente, si decide come intervenire: se recarsi o meno presso il domicilio, se chiamare il 118 o continuare a dare indicazioni telefonicamente. I pazienti però non capiscono la pericolosità della situazione e la gravità del virus. Tendono a ridicolizzare le precauzioni dei medici e a sottovalutare le misure prese a tutela di noi operatori sanitari e soprattutto loro. Faccio un appello affinché la gente possa restare a casa e chi ha bisogno di aiuto si attenga alle nostre disposizioni: nessuno verrà lasciato da solo o abbandonato a se stesso.

LUCA, 29 anni, medico-chirurgo in servizio a Lecco e dintorni:
Sono uno dei medici laureati ad aver partecipato alla chiamata della Regione Lombardia per fronteggiare l’emergenza covid-19. Sono in servizio nel reparto di Medicina interna dell’Ospedale S. Leopoldo Mandic di Merate e coadiuvo il team di medici specialisti coordinati dal dirigente dell’Unità Operativa, Dr. Crespi. Abbiamo pazienti complessi da gestire, non solo per il loro quadro clinico ma anche dal punto di vista pratico per via delle necessarie procedure per la protezione individuale che il personale sanitario deve eseguire: indossare mascherine, tute, poi disinfettarsi, cambiarsi, lavarsi. Le giornate necessariamente si allungano e diventano sempre più impegnative e stancanti.
È certamente un’esperienza forte, emozionante, formativa più che mai perché ti fa toccare con mano il difficile momento storico che sta vivendo tutta l’Italia, in particolare la Lombardia.
Io ho iniziato a lavorare con le guardie mediche e nel Pronto Soccorso a Caltanissetta, da un anno però ho trovato una situazione lavorativa più favorevole in Lombardia, una regione che mi ha accolto e fornito i mezzi per lavorare al meglio. Adesso sento il dovere di fare la mia parte per contribuire a sconfiggere questa grave emergenza. C’è molta tensione, la percepisco non solo in ospedale a Merate ma anche nella Casa circondariale di Lecco e nella Clinica Mangioni, dove lavoro. Qui ho ascoltato anche i racconti di pazienti in lacrime preoccupati dall’emergenza che la Lombardia sta fronteggiando.
Noi medici diamo un contributo, facciamo il nostro lavoro con abnegazione, ma è importante ora più che mai la collaborazione dei cittadini che devono restare il più possibile a casa per interrompere la catena del contagio
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RACHELE, 30 anni, infermiera in servizio all’Ospedale Niguarda di Milano:
Lavoro in rianimazione da tre anni e mezzo, nello specifico in rianimazione cardiotoracovascolare. Vedo pazienti bambini, trapianti di cuore, vedo persone stare male ma anche guarire alla fine. Sono abituata a vedere i casi limite però questa è una situazione diversa.
Da tre settimane abbiamo iniziato a rivoluzionare le strutture e abbiamo cercato di creare più posti di terapia intensiva, oltre a quelli già esistenti. Adesso lavoro in una rianimazione creata dal nulla nelle sale operatorie, con tutti i limiti del caso: spazi e materiali da riorganizzare in fretta e furia, lavorare con colleghi con cui non hai mai lavorato. È difficile, a questo poi si aggiunge lo stress, l’ingombro di tutti i dispositivi di protezione personale e ovviamente la paura di essere contagiata.
Da noi i pazienti arrivano intubati o svegli, forse però è meglio che arrivino intubati perché da svegli il peso psicologico è più grave da sopportare, per noi e per loro. Quando li vedi arrivare svegli, hanno paura, ma tu cerchi di tranquillizzarli. Anche se sono sedati, ogni giorno parliamo con loro. Sono persone, prima ancora che pazienti.
Non è vero che si ammalano solo gli anziani, ci sono anche pazienti giovani: il virus non guarda in faccia nessuno.
Stiamo cercando di fare tutto il possibile e anche l’impossibile, cercando di trarre insegnamento da questa situazione. Mettiamo da parte la stanchezza, le paure, però non ci sentiamo degli eroi. Io almeno non mi sento un eroe, sto solo cercando di fare il mio lavoro nel miglior modo possibile. Sicuramente è una situazione limite, ma gli eroi hanno i superpoteri, noi invece non abbiamo i superpoteri purtroppo. Con i miei colleghi diciamo sempre che la motivazione che ci spinge ad andare avanti è il desiderio di vedere uscire almeno un paziente guarito, lo dico con commozione.
Abbiamo dei crolli psicologici a volte, ma servono anche per decomprime la tensione accumulata durante i turni di lavoro. Ho dei colleghi speciali che mi danno serenità anche in queste circostanze difficili. Stanno male i pazienti e stiamo male anche noi ma non perdiamo l’ottimismo: saremo noi a vincere, non il virus.
Il problema però è sensibilizzare le persone. Questo non significa fare allarmismi, anche perché io sono stata la prima a sottovalutare il virus: credevo, speravo, che non fosse così aggressivo. Bisogna sensibilizzare tutti a rimanere a casa, a limitare i contagi, anche perché noi operatori sanitari possiamo aiutare tutti ma abbiamo bisogno di tempo per farlo. Ora però tempo non ne abbiamo, quindi serve rallentare i contagi. Per farlo occorre l’aiuto di ciascuno, rimanendo a casa. Da questa malattia si guarisce, tanti addirittura ce l’hanno in maniera asintomatica, senza saperlo.
Anche noi non ne sappiamo molto del virus, però facciamo il possibile, anche con le terapie sperimentali. Facciamo fronte alla carenza di medicine e di materiale, perché c’è molta richiesta, però stiamo facendo il 200%.
Voglio ribadire una cosa: ci vuole rispetto. È vero che gli anziani sono i più colpiti, spesso hanno altre patologie. Ma sono sempre persone, persone care che vengono a mancare per altre persone, quindi serve grande rispetto per questo dolore.
Ne usciremo, lo so: voglio abbracciare tutti i miei colleghi, da Nord a Sud, e la mia famiglia che mi manca maledettamente. Ce la faremo, dobbiamo impegnarci tutti.

Non credo sia necessario aggiungere altro. Voglio solo ringraziare Angelo, Luca e Rachele per il loro servizio, per la loro disponibilità a raccontare la propria esperienza, affinché ciascuno di noi possa fare una cosa che sì, ci costa certamente molte rinunce, ma che è assolutamente indispensabile per accelerare la fine di questo lungo periodo difficile: restare a casa.