di Giulio Scarantino

Ieri pomeriggio ha avuto inizio il festival L’Arte che cura, tra i primi relatori c’è stato il medico, docente universitario, neuroscienziato Giuseppe Giglia. Gli abbiamo fatto qualche domanda sull’evento, sul suo intervento e un commento -visto che è anche membro del consiglio direttivo del consorzio universitario- sul fermento culturale di Caltanissetta.

Perché uno studente universitario dovrebbe venire all’evento l’arte che cura?

Per ciò che riguarda la quota artistica dell’evento, lo vedo come un momento culturale generalista per cui qualunque studente di qualsivoglia facoltà può essere interessato partecipare. In merito alla quota scientifica, il mio intervento riguarda le neuroscienze dietro l’estetica, dietro l’arte e in particolare la musica;  ovviamente gli studenti di medicina sono i più interessati, però aldilà di questo sicuramente altri professionisti del settore potrebbero giovarsene: ci saranno nei prossimi giorni psicologi, psichiatri, medici che sono contemporaneamente artisti, e che ho davvero tanta curiosità di ascoltare.

Nei panni di un tuo studente, per quale motivo saresti venuto oggi all’evento? Cosa ti saresti aspettato?

Io sono fortemente di parte poiché la mia visione è distorta ed orientata fortemente alle neuroscienze, io sarei andato con la curiosità di capire qual è questo legame tra mente, cervello, corpo e arte. Perché tradizionalmente sono intesi come mondi totalmente separati. Da un lato la figura dell’arido scienziato –possibilmente pazzo- che fa esperimenti crudeli sugli animali e dall’altro la sensibilità dell’artista. La curiosità più forte sarebbe stata quella di trovare il legame tra un mondo e l’altro. Cosa c’è di scientifico dietro l’opera d’arte, dietro chi esperisce l’arte e dietro chi la produce, e cosa può esserci di artistico dietro la scienza. 

Qual è stato il rapporto tra arte e medicina nella tua vita?

L’arte mi piace, in particolare il design industriale, mi piace circondarmi di belle cose, andarle a guardare, soprattutto mostre di arte moderna. Per esempio vado periodicamente alla Farm di Favara. Il design mi piace così tanto da dedicargli spesso il poco tempo libero che ho a disposizione.  Recentemente posso affermare di aver vissuto una sorta di “liberazione”, essendo anche un maker e avendo imparato a modellare in 3D, grazie alla stampante 3D. Perché pur amando il design, ero limitato dalla mia incapacità a svolgere qualsiasi lavoro manuale, da buon “nerd”; ho superato questo limite disegnando al computer  e poi stampando in 3D le mie creazioni, rendendole reali. Adesso a casa ho complementi d’arredo disegnati da me. 

Questa passione ti ha portato ad approfondire il design e i suoi effetti attraverso le neuroscienze e da queste la neuroestetica di cui hai parlato oggi.

Si, approfondendo le conoscenze in neuroscienze ho scoperto che la nostra mente, il nostro sistema percettivo di fronte ad un percetto che acquisisce un significato ne ricava gratificazione. Infatti è ormai abbastanza accettato che la visone non è un passivo processo di acquisizione di informazioni sensoriali ma un processo creativo in cui l’informazione è abbondantemente filtrata, modificata attivamente allo scopo di attribuire un significato. Sulla base delle più recenti evidenze computazionali neuroscientifiche, quali ad esempio la “active perception” e il “predictive coding”, il percetto viene modificato e filtrato per rientrare in categorie più probabili, sulla base dell’esperienza pregressa. Quindi la domanda è per quale motivo l’uomo spende tanto tempo nella generazione di manufatti perché abbiano delle caratteristiche tali da consentirgli di averne una gratificazione estetica, che corrisponde comunque ad una soddisfazione di un desiderio ma che nello stesso tempo non è riconducibile a quelli primari? Perchè perdo tempo ad elaborare le informazioni percettive derivanti da questo oggetto senza che però io lo debba possederlo? Non è una soddisfazione di bisogni primari come mangiare, bere o il sesso, eppure è una cosa sulla quale indugio ed è quella che corrisponde al kantiano <<disinteressato interesse>>. Da un punto di vista evolutivo che senso ha per l’uomo spendere queste energie per fare un vaso con una certa forma se può fare un cilindro e spenderci un decimo del tempo? Eppure l’esperienza estetica è un comportamento umano che non si può negare, si deve cercare di svelare il perché evolutivamente è emerso questo comportamento. 

Forse già il processo visivo che ci descrivi è una forma d’arte, può essere considerata l’arte connaturata anche ai processi dell’organismo

Si, ne sono abbastanza convinto. E anche i dati della letteratura dicono questo; è palesemente connaturata, il problema è chiedersi il perché. L’ipotesi è che l’esperienza estetica non sia un comportamento che è stato spinto dall’evoluzione per il raggiungimento di un obbiettivo preciso, potrebbe essere un comportamento emergente derivante dall’interazioni di più sistemi, che magari erano indirizzati a cose completamente diverse. Per esempio c’è una relazione diretta tra neuroestetica e dolore; ovviamente potrebbero essere gli antipodi di uno spettro, che va dalla gratificazione alla antinocicezione, e che potrebbe spiegare gli effetti curativi dell’arte. 

Per il tuo ruolo ritengo doveroso chiederti se ritieni che a Caltanissetta ci sia un buon fermento culturale o deve ancora fare passi avanti?

Penso che il fermento culturale sia iniziato timidamente e poi ha avuto un’impennata iperbolica, mi chiedo se è così o è una sola mia impressione per essermi avvicinato di più alla città. Ad ogni modo la sensazione è che nel corso degli ultimi due o tre anni le cose siano partite alla grande, è una grossissima opportunità. Riconosco in Caltanissetta un luogo perfetto per sperimentare, perché le condizioni didattiche sono particolari, c’è un ambiente piccolo e raccolto. Caltanissetta ha la vocazione del campus universitario, un ambiente più raccolto che induce ad un rapporto diverso con il docente. La mia fantasia è quella di dare una nuova identità a Caltanissetta che parta proprio dalla cultura e dalla alta formazione universitaria, che possa essere attrattiva anche per studenti internazionali. Soprattutto credo in un modello che è fortemente spinto dall’Europa: le “Civic Univercities”. Le valutazioni sul sistema universitario hanno affermato che il modello vincente non è il mega-ateneo ma la piccola realtà universitaria all’interno di una piccola cittadina a misura d’uomo, al di sotto comunque del 400.000 mila abitanti. Il modello che l’Europa ritiene vincente è l’università del Ghent in Belgio; secondo questo modello i limiti tra la società civile e l’alta formazione sono sfumati. Ciò significa che l’università deve aprirsi alla Città – ed è questo che abbiamo cercato di fare con il consorzio- la città e l’università devono avvicinarsi reciprocamente. In questo modo se c’è un problema, come ad esempio l’impatto ambientale, la società civile pone il quesito ai giovani ed ai ricercatori impegnati nell’ alta formazione. Questi in maniera sperimentale si esercitano sul campo reale per mettere a punto un sistema che funzioni e la città ne trae giovamento. Da questo può attivarsi una spirale: attirare nuovi ricercatori e studenti che aumentano l’alta formazione e la cultura, a loro volta il benessere, con quest’ultimo il commercio e via dicendo… Quando punti sulla cultura ne traggono vantaggio l’università e la città, quindi io ci “stracredo” e forse ad un certo punto passare da un estremo all’altro è più facile. La città si è svuotata di giovani? Riempiamola di nuovi giovani. La cultura può salvare Caltanissetta.