Di Giulio Scarantino

Alle 21 e 13 inizia l’attesa Stagione Teatrale del Margherita, sul palco presenti il Sindaco Gambino vistosamente emozionato e l’assessore alla cultura Marcella Natale.
La platea è piena, qualche palchetto sui piani alti è ancora vuoto, il Teatro Margherita conserva la sua bellezza. In fondo alla platea sono raggruppate diverse persone che affiancano l’ attore Giorgio Villa, attendono la consegna della targa al merito per la carriera. Poco dopo l’introduzione commossa di Gambino per una discussa stagione teatrale, viene chiamato sul palco Giorgio Villa che avanza lentamente prendendosi tutto il tempo atteso per ricevere quel riconoscimento. Gli applausi sono fragorosi, a consegnare la targa è Flavio Bucci.


Concluso il momento cala il silenzio ed il buio. Prima che si apra il sipario, una premessa è d’obbligo:
probabilmente si è trattato di uno spettacolo che ha lasciato scontento il pubblico, forse non il modo migliore per iniziare la Stagione Teatrale del Margherita ma che merita rispetto.
Una testimonianza sincera di una persona che conclude la sua carriera nella quale ha rappresentato un riferimento importante della storia del Cinema e del Teatro italiano.


Tornando alla serata, lo spettacolo si apre con le note di Ivano Fossati ed una scenografia minimalista. L’ autore ripercorre la carriera con immagini, aneddoti e video del passato ma che mostrano subito un’ evidente difficoltà nella comprensione dell’eloquio.
L’attore racconta la sua vita border line, vissuta sul filo della pazzia. Come i suoi personaggi.
Ad intervalli, come nello spettacolo, la pazzia prende il sopravvento calpestando quel filo sottile, oltrepassando il limite. Così i personaggi diventano ingombranti.
Come una camicia di forza,  lo tengono ingabbiato in una lucida pazzia. In lunghi minuti di no sense, vengono fuori come un ordine nel caos la ripetizione di battute di personaggi vissuti. Una frase però si staglia chiara: ” Il teatro è stata la terapia migliore, più di 500 pillole.”


Nel coraggio di manifestare la sua instabilità, di non nascondere una condizione che lascia attonito, incredulo e infastidito lo spettatore, riserva gli ultimi venti minuti dello spettacolo per l’impeccabile rappresentazione dell’opera di Shakespeare. Per un attimo ritorna il Bucci che conosciamo, superando i limiti mostrati in precedenza.
Insomma soltanto uscendo dalla sua persona riconosciamo la persona. Ormai il maestro Bucci non è, della persona è rimasta solo il Teatro.


Forse in uno spettacolo non facilmente comprensibile ed apprezzabile, “E pensare che ero partito così bene” è una cruda testimonianza del tempo inesorabile ma nello stesso momento di un messaggio biascicato: il Teatro diventa terapia salvifica per sopravvivere. Ultimo appiglio per resistere alla vertigine del vuoto.
Maestro Bucci, e pensare che eri partito così bene.