Di Carlo Vagginelli
Uno studio condotto da Legambiente colloca Caltanissetta all’ottantacinquesimo posto nella graduatoria nazionale sulla qualità ambientale delle aree urbane. Un dato certamente non incoraggiante, che accompagna altre indicazioni altrettanto negative emerse negli ultimi mesi. La più recente viene dalla classifica sulla vivibilità redatta da Italia Oggi con la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma: tra i centosette capoluoghi di provincia la nostra città occupa il centotreesimo posto per qualità negli affari, nel lavoro, nell’ambiente, nella formazione, nel tempo libero e nel turismo.
Dalle elaborazioni statistiche, del resto, emerge che la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli preoccupanti, come anche il numero delle famiglie sotto la soglia di povertà, quello delle aziende che chiudono per non riaprire, quello dei giovani che lasciano definitivamente la nostra città. Tra il 2008 ed il 2017 più di settantamila persone hanno lasciato la nostra provincia e per una nuova generazione di ragazze e ragazzi l’unica prospettiva di ascensione sociale pare concretizzarsi in un progetto migratorio.
Non si tratta solamente di numeri, dietro quei dati si nascondono volti e storie che parlano a ciascuno di noi: il compagno di classe che non trova lavoro, la sorella che ha studiato a Milano e cerca un’occupazione a Londra, il vicino di casa che chiude il negozio perché Amazon e Dittaino sono concorrenti troppo forti ed i clienti affezionati non bastano più, l’operaio che entra in conflitto con l’azienda per la quale lavora e si affaccia ad un ponte pensando di farla finita.
È la Spoon River di una crisi lunghissima, che colloca il nostro territorio nell’ambito delle “aree marginalizzate”, quelle dove giustizia sociale ed ambientale sono al di sotto della soglia di tollerabilità ed i meccanismi endogeni (tanto quelli politici, quanto quelli di mercato) non sono sufficienti ad invertire la rotta. Crisi economica, squilibri sociali e problematiche ambientali finiscono così con l’interagire e l’alimentarsi reciprocamente, in un circolo perverso che crea sfiducia e rassegnazione.
Il nostro non è affatto un fenomeno isolato: negli ultimi trent’anni in tutto l’Occidente sono cresciute le disuguaglianze nell’accesso ai servizi sociali, nella distribuzione del reddito ed anche nel riconoscimento culturale e politico delle classi sociali più deboli. Nello stesso periodo si è allargato il divario tra grandi aree urbane capaci di attrarre investimenti e realtà più piccole (zone rurali interne, provincie de industrializzate) cadute nella “trappola” del sottosviluppo, della perdita di servizi, del declino demografico.
Lo raccontano i dati statistici, ma lo spiegano in modo ancora più efficace i recenti passaggi elettorali, tutti ugualmente segnati da una dinamica autoritaria figlia della rabbia e della frustrazione di chi non si è sentito riconosciuto nei suoi bisogni, nella sua richiesta di protezione, nel suo sistema di valori. Il voto per Trump e quello a favore della Brexit – ad esempio – si comprende proprio alla luce di una nuova conflittualità tra metropoli cosmopolite ed aree marginalizzate.
Tutto ciò non è accaduto a causa di un destino cinico e beffardo, sono state le scelte politiche ed economiche degli ultimi anni a contribuire in modo determinante all’affermarsi di questo stato di cose. Si è trattato di un disegno politico e culturale ambizioso, realizzato riducendo il potere negoziale del lavoro, favorendo la concentrazione in poche mani della conoscenza e del potere prodotti dalle innovazioni tecnologiche, relegando lo Stato ad un ruolo marginale, indebolendo le formazioni sociali e di rappresentanza, costruendo un senso comune fondato sull’illusione per cui il successo sarebbe frutto esclusivo del merito, quando in realtà è spesso figlio di privilegi e rendite di posizione.
Il moltiplicarsi dei divari territoriali rappresenta la dimensione spaziale di questo processo di redistribuzione verso l’alto della ricchezza. La stagione neoliberista, del resto, ha fatto propria la mitologia delle big cities, dei grandi poli urbani attrattivi di investimenti economici e capitale umano, esclusivi protagonisti della modernizzazione e latori di best practices da applicare sempre ed ovunque, prescindendo dalle peculiarità e dalle caratteristiche di ciascun territorio.
Si è trattato di un modello di sviluppo cieco rispetto ai luoghi, che ha moltiplicato le disuguaglianze tra territori e persone, finendo con il consegnare importanti aree dell’Occidente ad una condizione di marginalità, rabbia e frustrazione. In Italia tutto ciò è accaduto accentuando squilibri già esistenti ed introducendone di nuovi, rinunciando a strategie pubbliche di governo del territorio ed introducendo norme di natura federale non accompagnate dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire universalmente.
Eppure non mancherebbero le risorse e le occasioni di riscatto, a partire dall’enorme capitale di tradizione, comunità e bellezze naturali di cui dispongono le aree interne e le realtà urbane medio-piccole del nostro paese. Si tratta di un potenziale notevolissimo, che potrebbe facilmente incrociare la domanda di qualità, esperienze ed unicità proveniente da milioni di persone in tutto il mondo. Tra i vicoli di quelle piccole città e le rugosità di quelle aree rurali in via di spopolamento si cela quindi un giacimento di innovazione e modernità che non va sprecato, valorizzarlo è uno dei compiti più importanti che la politica dovrebbe darsi.
Il Ministro Provenzano ne è consapevole e tante delle sue scelte sembrano andare in questa direzione, basti pensare alle risorse destinate alla Strategia di sviluppo delle aree interne, agli investimenti per le imprese che innovano al Sud, ai fondi indirizzati al potenziamento della rete infrastrutturale del Mezzogiorno. Sono solo i primi passi, certo, ma la direzione è finalmente quella giusta e questi provvedimenti, se ben attuati, contribuiranno a ridurre i divari territoriali ed anche noi potremo giovarne.
Anche il buon governo, però, non sarà sufficiente per sanare le fratture sociali e democratiche che affliggono il nostro territorio, le disuguaglianze vanno combattute lì dove esse colpiscono e fanno male: nel corpo vivo della società. Serve quindi una politica capace di generare conflitto e di proporre alternative radicali, lo scriveva anche Gaetano Salvemini: “Non è facendo scendere dall’alto la grazia divina che si può epurare la vita meridionale […] bisogna aprire il varco alla folla che brulica fuori dall’attuale regime politico e lasciare che su questa base solida di forze lavoratrici crescano i partiti nuovi capaci di rinnovare la vita dei loro paesi”.
Il Partito democratico che immagino deve avere questo cruccio, deve utilizzare ogni sua energia per trasformare la rabbia e la disillusione in voglia di osare e desiderio di riscatto. Per essere all’altezza di questo compito bisognerà recuperare la credibilità perduta, ascoltando le persone, aprendo le porte dei circoli per far vivere quegli spazi come luoghi di socialità e costruzione di cittadinanza, mettendosi a servizio della comunità che si vuole rappresentare.
Servirà determinazione e pazienza, ma serviranno anche buone idee. Nelle prossime settimane lavoreremo ad un importante appuntamento programmatico che coinvolgerà il mondo accademico, quello dell’associazionismo e le organizzazioni di rappresentanza del lavoro. Sarà quella l’occasione giusta per mettere in campo proposte concrete per il rilancio del nostro territorio, ma già ora è possibile individuare sinteticamente alcune priorità.
La prima riguarda certamente l’attuazione di Agenda Urbana, il finanziamento che il Comune di Caltanissetta e quello di Enna hanno ottenuto attraverso un lavoro condotto finalmente in sinergia. Si tratta di risorse economiche importanti (venti milioni di euro solamente per la nostra città) da destinare al raggiungimento di obiettivi di prevenzione ambientale, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2, innovazione digitale, inclusione sociale e miglioramento della competitività delle imprese. L’attuazione dell’Agenda deve uscire dalle chiuse stanze degli uffici tecnici, occorre favorire la partecipazione ai bandi con una corretta comunicazione ed utilizzare ogni spazio disponibile per realizzare questa fase dentro un dibattito pubblico informato ed aperto al contributo delle parti sociali, delle organizzazioni di cittadinanza e di outsider che intendano infrangere rendite di posizione dell’élite locale.
La seconda priorità riguarda l’interazione tra l’Agenda Urbana e altre importanti leve di sviluppo: l’istituzione della Zona economica speciale, gli investimenti in infrastrutture, l’apertura di nuovi corsi di laurea, la decontribuzione per interventi di recupero edilizio prevista dalla legge di bilancio. Nessuna di queste leve, da sola, sarà sufficiente a rimettere in piedi il nostro territorio, occorre quindi usarle insieme, in sinergia con risorse private che sarà possibile attrarre ed in attuazione di una strategia unitaria orientata allo sviluppo sostenibile ed al miglioramento dei servizi, alla riqualificazione e rigenerazione della città. In questa prospettiva sarà fondamentale agire sui tavoli tecnici e politici delle nuove programmazioni, provando ad incidere sui parametri di finanziamento e sugli obiettivi da raggiungere, evitando cioè di fare quanto è sempre stato fatto fino ad oggi: inseguire affannosamente un treno già partito ed in corsa lungo binari non scelti da noi.
La terza priorità si concretizza nell’uso innovativo degli appalti pubblici. La domanda pubblica può fungere da stimolo all’introduzione di innovazioni con un alto impatto sociale, anche a livello locale, ad esempio, favorendo il consumo di prodotti locali a basso impatto ambientale nelle mense scolastiche. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha già stipulato apposite convenzioni con amministrazioni comunali proprio allo scopo di incrementare tali tipologie di appalti. Il Comune di Bologna e quello di Milano si sono mossi in tal senso, anche da noi sarebbe possibile avviare un processo simile.
La quarta priorità riguarda il personale dell’amministrazione comunale, che sarà significativamente rinnovato con un concorso per trenta nuovi dipendenti. Senza un’amministrazione competente, rinnovata e fortemente motivata non sarà possibile avviare nessun serio progetto di cambiamento, per questo l’ingresso di forze nuove e competenti dovrà corrispondere una politica del personale centrata su obiettivi strategici e sulle capacità organizzative e progettuali di ciascuno.
La quinta priorità, infine, riguarda il rafforzamento del tessuto civico e partecipativo del nostro territorio, da realizzare attraverso l’istituzione di Reti sociali che tengano insieme associazioni, comitati di quartiere, attività commerciali e gruppi di cittadini per dare risposte condivise ai bisogni della città per ciò che riguarda l’educazione, la sicurezza, la tutela dell’ambiente, il sostegno alle fragilità, la tutela della salute, il supporto alle famiglie e la promozione di spazi urbani e di integrazione sociale. In una città scoraggiata e stanca occorre ripartire da relazioni vive, generative e responsabili, per questo un forte investimento sulla partecipazione attiva può rivelarsi una fondamentale leva di sviluppo e riqualificazione. Anche in questo caso esistono esempi positivi da imitare, a partire dall’esperienza del Comune di Bergamo.
Questo breve elenco non ambisce ad essere esaustivo, al contrario, si tratta soprattutto di un contributo ad una riflessione tutta da avviare. Una riflessione che il PD nisseno svilupperà interloquendo con tutte e tutti, perché il tempo della rassegnazione è finito, è arrivato il momento di osare, di costruire insieme la città futura, la città che sogniamo per noi e per chi verrà dopo di noi: bella e democratica.
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