Di Carmelo Sostegno

Settembre. Ne sono successi due, tra loro indissolubilmente legati perché dichiarano la terza morte di Giulio Regeni. 
Il primo riguarda la decisione dell’Ufficio per i diritti umani per il Medio Oriente e l’Africa del Nord (ONU) che individua l’Egitto come sede per la «Conferenza sulla definizione e criminalizzazione del reato di tortura». Una presa in giro per tutta la comunità internazionale. Il secondo, invece, riguarda l’Italia, e più precisamente Di Maio come Ministro degli Esteri. La sua forte presa di posizione per la Verità su Giulio Regeni  ora come deputato dell’opposizione nel 2016 ora come viceministro nel 2018 non s’è ancora concretizzata.

Se il portavoce dell’Ufficio per i diritti umani, Rupert Colvell, ha fatto presto a rinviare la Conferenza al fine di individuare una nuova sede diversa  – anche se un tale passo indietro non libera dalle inquietudini, il governo italiano continua fermo nella più imbarazzante delle inazioni storiche nazionali: dal 2016 a oggi, i rapporti con il governo di Abdel Fattah al-Sīsī sono stati protetti dalla misera retorica dei ministri dell’ultima ora – vedi l’ex degli Interni, uomo per gli italiani, che nel giugno 2018 così interveniva sintetizzando la posizione del Conte I: «Comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia di Giulio Regeni. Ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto». Un mantra ribadito più volte, il più alto e non sacrificabile interesse comune dell’economia a scapito della giustizia, e che dà contezza della fragilità d’un Paese in cui l’assassinio d’un giovane ricercatore diventa un “problema”, in cui gli atti efferati subiti da Giulio d’un tratto sarebbero mere, tipiche conseguenze cui solitamente va incontro un giovane ambizioso forse un po’ troppo avventato. 

«L’esecuzione finale di Giulio è avvenuta con una separata e violenta azione contusiva sull’osso del collo. L’autopsia italiana parla di contusioni e abrasioni in tutto corpo, lividi derivanti da calci, pugni e aggressione con un bastone, tutte le dita di mani e piedi spezzate, gambe, braccia, scapole e sette costole rotte, coltellate multiple sul corpo, comprese le piante dei piedi, tagli sul viso, alle orecchie e bruciature di sigarette»

La situazione è drammatica perché drammatico è il troppo amicare che l’Italia continua a intrattenere con il regime egiziano. Un recente documento diffuso dall’O.P.A.L. (Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa) rivela che nel luglio 2018 il governo italiano «ha continuato l’esportazione in Egitto di più di 7 milioni di euro in armi mentre le aziende con licenza hanno esportato 17 milioni di euro in forniture militari».
E dire che già nel 2016, Di Maio pretendeva dal Governo Renzi la sospensione dell’export d’armi in conformità alla l. 185/1990 che espressamente ne vieta «l’esportazione, il transito, il trasferimento verso Paesi in stato di conflitto armato». Che le fatiche della perenne campagna elettorale abbiano assiepato i pensieri dell’attuale ministro?

L’Egitto con il quale l’Italia conclude i propri affari e i cui apparati hanno ucciso Giulio Regeni è il paese di un ex generale alla guida di un golpe, una violenta repressione non solo contro i rivoluzionari della primavera araba ma anche contro i Fratelli Musulmani e quanti coloro, giornalisti e attivisti, contestavano e contestano apertamente il regime. Ma noi, le informazioni sull’Egitto le scopriamo solo dopo la morte di un cittadino italiano.

I Report realizzati negli ultimi anni da Amnesty International e da Human Rights Watch ne danno un’idea. Ci raccontano un Egitto del terrore che nulla ha a che vedere con le strutture democratiche occidentali millantate dal governo Italiano e dall’Ue. «Dal 2014 a oggi – racconta il report di Amnesty 2018 – sotto l’amministrazione del presidente al-Sisi, le corti egiziane ordinarie e militari hanno emesso almeno 2.000 condanne a morte per la maggior parte per reati connessi a episodi di violenza politica, dopo processi iniqui spesso basati su “confessioni” estorte sotto tortura e dopo indagini di polizia viziate da errori; le autorità hanno provveduto a circa 22.000 arresti». Dati, questi, che di fatto sarebbero ben più alti poiché, sempre come precisato dai report degli ultimi anni, molte condanne ed esecuzioni avvengono al di fuori dei percorsi giudiziari. Ogni tre mesi, in Egitto, spariscono circa venti persone.

«Lo studente Mahmud Mohamed Ahmed Hussein è rimasto in carcere senza accusa né processo  per più di 700 giorni dopo il suo arresto nel mese di gennaio. La causa dell’arresto era aver indossato una maglietta con lo slogan “paese senza tortura”»

Che le indagini sull’omicidio Regeni procedano verso l’archiviazione, come riferito di recente dai magistrati romani al COPASIR, rivela una sconfitta non propriamente giudiziaria ma politica. Poco o nulla può far la magistratura di fronte alle continue sopraffazioni delle autorità egiziane, come quella denunciata dall’avv. Ballerini ai procuratori romani in data 10 Gennaio 2018, in cui alcuni ufficiali della National Security in Egitto avrebbero contattato Mohammed Lotfy, legale egiziano della Commissione per i diritti e le libertà (Ecrf) in collaborazione con la procura di Roma e la difesa Regeni, dal quartiere di Nasr city affinché riferisse notizie sullo stato delle indagini. Un terribile atto che rappresenta un importante conferma per la magistratura italiana – il Nasr è l’ufficio di riferimento alle attività di pedinamento e dossieraggio svolte su Giulio prima del sequestro, lo stesso ufficio dove tuttora lavora il maggiore Sherif Magdi Abdel Aa, uno dei cinque ufficiali di cui il registro degli indagati della procura di Roma

«Nella notte tra il 10 e l’11 maggio 2018, la polizia ha fatto irruzione nell’appartamento di Lofty. Hanno rilasciato lui e la figlia. Hanno arrestato la moglie, Fathy. L’arresto di Fathy avviene a pochi giorni dall’arrivo al Cairo della delegazione della Procura di Roma guidata dal sostituto procuratore Coaliocco, per visionare le immagini delle telecamere di videosorveglianza della metro in cui Giulio è stato quasi sicuramente rapito»

La responsabilità politica italiana proviene da una tendenza epidemica e per noi svilente. «I miti della protezione nazionale, della divisione tra Occidente “sicuro” e Oriente “insicuro”, – com’è stato detto assai chiaramente – sono un palliativo che devia costantemente l’attenzione dalla sfera della “sicurezza che conta” e di cui tutti siamo un po’ vittime: quella, cioè, delle élite politiche, economiche e finanziarie, intrecciate tra loro in una dimensione transnazionale». A questo punto, non è più una questione tra civiltà e inciviltà. Vera è piuttosto la confusione dei confini ogniqualvolta si creino spazi di convivenza commerciale in cui non c’è attimo dedicato al rispetto dei diritti umani come premessa necessaria.

L’Egitto è un regime dove ogni giorno qualcuno viene rapito o ucciso, divorato dall’oblio o dall’ingiustizia. Ma è anche un partner economico “irrinunciabile” –  l’Eni ha scoperto un giacimento di gas naturale Zohr, a 193 chilometri dalla costa egiziana, di circa 850 miliardi metri cubi di gas («l’equivalente di 5.5 miliardi di barili di petrolio»); poi l’Edison (in Egitto con investimenti per circa due miliardi); Banca Intesa San Paolo che nel 2006 ha comprato Bank of Alexandria per 1,6 miliardi di dollari; e poi Pirelli, Italgen, Danieli Techint, Gruppo Caltagirone; Beretta, Fincantieri, Inveco;  e naturalmente il turismo (Alpitour, Valtour) -. È nel rumore ignorato dai governi  le verità si perdono; è in questo rumore economico che i regimi come quello egiziano «raggiungono il livello di omertà necessario per mantenere compatte le proprie fila»; è in questo rumore che l’Egitto reclude ogni anno innocenti, giornalisti, sindacalisti in nome di una repressione sistematica e capillare.

Matteo Renzi, nel corso di un’intervista ad Al Jazeera, definì al-Sisi “a great leader”. Ma è mai possibile una cosa del tipo? Nelle dittature la legislazione di sicurezza e d’ordine pubblico diventa legislazione d’emergenza. Tutte le atrocità che essa porta con sé vengono normalizzate al punto che il male – Giulio ha subito il male del mondo – diventa un semplice calcolo tra costi e benefici.

La tortura subita da Giulio Regeni era ed è legge in Egitto e in Italia. Italia, triste Paese, quanto in Piazza dell’Unità a Trieste scompare lo striscione con la scritta Verità per Giulio Regeni; quando a Ferrara, i militanti della Lega, per festeggiare la vittoria storica di Alan Fabbri, eletto sindaco nella città, coprono col proprio manifesto quello dedicato a Giulio; Italia che si crede in un quieto vivere ma è soffocata dalla colpa. Gli interessi economici nella vendita d’armi sono un crimine contro l’umanità. Hanno ucciso Giulio Regeni. Uccidono, ogni giorno, migliaia di persone.