Di Carmelo Sostegno
Sarebbe stato interessante leggere ai leghisti e agli altri seduti al Senato l’editoriale di Ezio Mauro, quello di ieri l’altro, giorno 19, prima pagina di Repubblica.
Interessante sarebbe stato intervenire in Senato e fermare il gioco delle responsabilità e l’altrettanto curiosa evangelizzazione dei discorsi, citazionismi ingrati, e comunque sempre in un posto che dovrebbe essere laico.
Sarebbe stato interessante intervenire tra loro e leggere più severamente la seguente frase tratta dal pezzo di Mauro: «Se guardiamo ai due partiti vediamo che il livello dell’elaborazione politica e culturale è inadeguato rispetto al momento che attraversa il paese».
Ebbene, il giornalista faceva riferimento al Pd e al Movimento5stelle che potrebbero unirsi per formare una nuova maggioranza, ma la frase in sé pare come la miglior sintesi, il più acuto preambolo a una necessaria e più ampia riflessione. Perché Mauro ha ragione, altri come lui ce l’hanno, hanno ragione le lettere e i discorsi severi di Conte, anche la nostra perplessità ha ragione, ma la crisi dell’ennesimo governo è l’effetto di un problema di ancor più difficile soluzione.
Dal 2006, le legislature di questo paese non vengono completate. Due anni, poi tre, poi altri due, e via dicendo. Questo del cambiamento, poi, poco più di un anno.
In quest’alternarsi sfrenato e ambiguo, i partiti ci scrutano, ci guardano mentre distratti dalle cose della vita, e con discorsi capziosi ci inseguono, pregano per un voto, promettono cambi di rotta, cambiamenti, accordi. Il giorno dopo, li senti distanti e confusi, d’un tratto incasinati e turbati come camaleonti sulle tele d’un Pollock.
Prendendo a prestito la lettura che Flavio Felice ha fatto di Tocqueville giusto l’anno scorso, i limiti della vita istituzionale del nostro paese sembra assai dipendere più da una questione di prerequisiti sociali che di ordine costituzionale. Hai voglia di riportare a galla il ’46 e la proposta del costituente repubblicano Perassi alla seconda sottocommissione dell’Assemblea, quando si insisteva sull’adozione di strumenti idonei a garantire «una maggiore stabilità dell’azione di governo» come la sfiducia costruttiva e la maggioranza qualificata per l’approvazione della mozione di sfiducia; hai voglia di leggere la nostra storia istituzionale come il «vano tentativo di conseguire la stessa stabilità e la stessa efficienza promessi da quella proposta».
Per quanto in molti riconducano la stabilità dei governi a un limite strutturale, il dibattito d’oggi conferma la sofferenza dei tredici intensissimi senza governo in un unico limite: l’assenza di un sincero dibattito parlamentare, l’assenza d’educazione istituzionale, e di Senso dello Stato.
Per superare questa svilente instabilità politica, dovremmo procedere a un’ansiosa ricerca delle parole, in primis della parola «fiducia», dell’essenza di quest’ultima nelle cose della forma di governo parlamentare, nelle cose dell’economica, nelle cose della giustizia, chissà, anche nelle cose della religione così cara ai politici d’oggi e nelle cose della vita privata. Solo questa ricerca, se autentica, permette di convivere con una forma di governo che per sua natura non ha approdi di stabilità.
Flavio Felice, docente universitario di Storia delle dottrine politiche, parlando dei “requisiti minimi della democrazia” di Robert Alan Dahl approda poi all’interessante ma sempreverde precisazione per cui l’esperienza dei governi democratici e repubblicani, mai esistita nei venticinque secoli di esperienza della democrazia ateniese e repubblicana dell’antica Roma, non è democrazia ma poliarchia, vale a dire «democrazia procedurale», un luogo di «concorrenza perenne in cui i capi sono costretti a farsi concorrenza e divenire ricettivi delle preferenze del demos». Vivere la democrazia procedurale senza consapevolezze culturali è una ritmica immersione in una mare di frustrazioni civiche, sia per gli elettori che per gli eletti.
Democrazia è “governo delle opinioni” e in questo senso governo privo di certezza ma irrinunciabile condizione, punto di vista in cui ci si deve necessariamente collocare per continuare ad affrontare i problemi nel miglior modo possibile. Tale punto di vista è così irrinunciabile perché coincide con l’eguaglianza e questa è un limite al protagonismo esasperato dei leader d’oggi. L’élite di Pareto dice che le aristocrazie (alias democrazie elettive) non siano destinate a durare. “Qualunque siano le ragioni – spiega F. Felice – è incontestabile, che dopo un certo tempo spariscono. La storia è un cimitero di aristocrazie”. E le democrazie rappresentative elettive, che altro non rappresentano che una visione elitaria della democrazia pura (quest’ultima quella dei sorteggi e della democrazia partecipativa) sono destinate a decadere più per la qualità che per altro.
È dunque nelle cose della democrazia l’avvicendamento spesso caotico e sconclusionato della classe politica. Non è della democrazia l’intolleranza, chiave di lettura usata da quasi tutti gli interventi di ieri al Senato. Dove tutti sono San Pietro e San Tommaso, ma nessun Giuda tra i banchi. Direste: «Mi pare d’averne visti di Giuda, ieri». Di qui, ora che si parla assai di Vangelo, consiglierei un interessante lettura della peculiare figura dell’apostolo Giuda. L’ho letta per la prima volta nelle pagine di Gustavo Zagrebelsky, curate dalla scrittrice Gabriella Caramore. Giuda sarebbe il più fedele tra gli apostoli, colui senza il quale Gesù non avrebbe realizzato il disegno di Dio. Giuda sarebbe il più fedele perché è in lui che le scritture fanno vivere il percorso di redenzione e realizzazione dell’uomo: nell’errore e nella redenzione esiste l’uomo e il più autentico significato della fiducia. Ma prima ci si dovrebbe pentire. Invece l’Italia s’affolla di giovani Matusalemme e predicatori immacolati.
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