di Ivan Ariosto

 

Pochi giorni fa la Sea Watch 3 è sbarcata a Lampedusa, pur non avendo ricevuto il permesso dall’Italia di attraccare presso il porto dell’isola, portando con sé una quarantina di persone provenienti dalla Libia.

Una parte dell’opinione pubblica italiana ha applaudito il coraggio e la caparbietà della capitana Carola Rackete, mentre il Ministro dell’Interno Salvini, direttamente dal suo profilo Facebook, ha gridato allo scandalo, definendo l’operato della Sea Watch 3 un vero e proprio “atto di guerra”.

Da circa nove giorni, ovvero da quel 26 Giugno in cui è avvenuto lo sbarco della nave della ONG in questione, il dibattito politico è stato completamente monopolizzato da questa drammatica vicenda. Ma in che termini? Ci si è interrogati sulle cause della crisi libica? Sono state ipotizzate possibili strategie da adottare in sede europea al fine di affrontare il fenomeno massiccio delle migrazioni dall’Africa? Si è cercato immediatamente di predisporre strutture e strumenti congrui ad assicurare un futuro alle persone salvate dal naufragio?

Niente di tutto questo. Qualcuno vorrebbe forse instillare il dubbio che esista, nel nostro sgangherato Paese, una classe politica e un’informazione giornalistica dotata di quel lume della ragione tanto caro agli Illuministi settecenteschi? No, di certo.

Ci si è gettati a capofitto nel derby tra tifoserie opposte: da una parte, il Capitano e dall’altra la Capitana, da un lato “aiutiamoli a casa loro” (con buona pace di coloro che vivono richiusi in lager libici, perfetta riproposizione di quelli di Birkenau, Dachau e Buchenwald, al netto dell’ideologia nazista che li originò) e dall’altro il dogma dell’«accoglienza» indiscriminata tanto cara a Papa Francesco.

E quella quarantina di persone che sono sbarcate? Qualcuno si è chiesto dove sono, come stanno, cosa fanno, ma soprattutto dove staranno e cosa faranno nel prossimo futuro?

Salvati dalle onde del mar Mediterraneo, sono poco dopo naufragati negli abissi – ben più oscuri – delle indifferenti coscienze dei più.

“Salvini ha perso, viva Carola!”, questo ciò che importa.

E quelle quaranta persone? Resteranno nel nostro Paese? E se sì, cosa farà l’Italia per permettergli di inserirsi nel tessuto sociale? Impareranno la nostra lingua? Potranno trovare un lavoro?

Tutte domande senza risposta, che né Salvini & co. né tantomeno gli anti-salviniani hanno avuto il tempo e la voglia di porsi.

La verità è che, in questo clima di campagna elettorale permanente, in cui anche le vicine elezioni del Comune di Vattelapesca divengono l’occasione per dar sfogo alla più indecente propaganda politica, l’approccio ad un problema drammatico ed epocale come quello delle migrazioni è colmo di sterile retorica.

Una retorica che contrappone slogan ad altri slogan, incapace di vedere la realtà in modo informato e ragionevole, utile solo a creare ultras di un colore piuttosto che di un altro, nonostante ci siano di mezzo vite di individui, che non hanno bisogno solo di qualcuno che li salvi dal mare, ma soprattutto di qualcuno che gli dia la dignità che ogni essere umano merita.

E invece restano solo dei numeri.

Si misurano in numeri coloro che partono dalla Libia verso l’Europa, si misurano in numeri coloro che muoiono in mare durante il tragitto, si misurano in numeri coloro che restano stipati nei centri d’accoglienza, vagando senza meta nelle nostre città.

Nessuno sembra interessato ad occuparsi di cosa accade a queste persone dopo lo sbarco.

Nessun programma politico di nessuna forza politica, in occasione delle ultime elezioni, prevedeva la predisposizione di misure specifiche per l’integrazione dei migranti presenti sul territorio italiano.

Il “circuito dell’accoglienza” fa acqua da tutte le parti, ma a nessuno sembra interessare.

Rinchiudere mille persone in dei capannoni come i Cara, che ne potrebbero contenere al massimo un centinaio, è un modo di gestire il problema degno di un Paese civile?

I finanziamenti europei finalizzati alla gestione del fenomeno migratorio non vengono utilizzati per la creazione di corsi di formazione e di lingua o per il potenziamento dell’operato degli assistenti sociali, ma finiscono, molto spesso, nelle tasche di chi preferisce stipare i migranti in vecchi alberghi in crisi, che vengono appositamente riqualificati in dormitori, o in tuguri disabitati da anni che presidiano i centri storici delle città.

Se impedire lo sbarco di una nave carica di disperati è un atto criminale e insensato, è altrettanto criminale accogliere queste persone per abbandonarle al degrado e all’indifferenza.

Se è pacifico che contrastare gli sbarchi finanziando Stati fantoccio al di là delle coste del Mediterraneo non sia una strategia adeguata a fronteggiare il problema, è altrettanto indiscutibile che il tutto non possa risolversi con la mera accoglienza di individui provenienti da culture profondamente diverse dalla nostra, senza approntare un efficiente piano di integrazione che possa consentirgli di inserirsi nella società, permettendogli di conservare e valorizzare le loro diversità e, al contempo, di imparare a rispettare le regole del Paese che li ha accolti.

Affinché non restino più numeri, ma possano riacquistare la dignità che ogni essere umano merita.