Di Andrea Salvatore Alcamisi
ALLEGATO A
Ma voi pochi sublimi animi che solitari o perseguitati, su le antiche sciagure della nostra patria
fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro la forza, perché almeno non raccontate alla
posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci manca il coraggio, ma la possanza.
31 Ottobre, ore 19:30.
Meschina questa finestra per poter abbracciare la luna. La notte si avvicina, mi invita al suo gioco. La polvere danza sulla scacchiera delle illusioni: tutto è pronto. In affanno la notte, zoppica, teme che io non creda più alle stelle, alle brezze, ai chiaroscuri delle stagioni. Difficile crederci, anzi impossibile, in un paese di provincia stretto tra valli assetate, dove le lucertole si dimenano tra sterpaglie aguzze e muretti secchi. Le chiacchierate: solite galanterie spente tra sogni erotici e soddisfazioni defunte. Una tirata di sigaro vale di più. E gli sguardi? Vanno vengono scorrono e, senza accorgersene, si
attaccano agli anni.
Bacco, tabacco, Venere non servono proprio a nulla. Il nulla, quella sensazione così ondifuga, l’ho conosciuta quando la sera stavo a pagare gin tonic e la mattina hamburger stracotti e chips a mezzaluna, incollate, posticciamente solidali, lorde di vecchie fritture.
Maliziosi ammiccamenti e sorrisi rubati mi stuzzicavano, ma rifiutai ogni pietanza afrodisiaca. Per un po’ andò così, ma infine accettai volentieri un buon stakancik di vodka e un secondo e un terzo, mentre l’acquetta battezzava il palato e picchiava sulla lingua: za znakmostvu, tovarish! Stordito, come se un paio di cosacchi mi avesse scosso a colpi di acrobatiche capriole, non restò altro da fare che:
1. aperitivare, pomiciando con topazi di NaCl ancorati in chiatte informi di prosciutto,curve su torrenti di olio rancido;
2. addentare, ciucciando le carni flosce di una sparuta oliva spagnola tabefatta in un acquitrino di salamoia;
3. conversare, palpeggiando con furtive carezze una tazzina di caffè nientaffatto napoletana, di un sapore acherontico, stantìo, molle come una maglia glutinica e sporca come una vecchia lavastoviglie, consunta da opportunisti criptococchi;
4. pranzare easy and slim, assecondando l’uso meneghino e slinguazzando asimmetriche scaglie di verdura, strozzate fra gli interstizi dentali;
5. dulcerinfundere, lardellando ad una cena di esotiche lecconerie così trimalchionesca che il Doctrinae cosinandi viginti è una quisquilia da padellai. Ergo, in caput allo desco, na multitudinem de piscis fetentis et crudis cum granis de riso et foliis de alghe nigrequasimodo faciunt li dimoranti de lu Catai.
Mi piacque il suo menù e alla fine ci stringemmo nelle lenzuola a chiuderci in uno scrigno dorato, a serrarci in una nuova chimera. Trastullarmi in quel groviglio di effimere pulsioni, dapprima, fu un gran balsamo. A poco a poco, però, il letto d’ottone cominciò a rovinarsi e la patina a scolorirsi. Sbuffavo, scalciavo nel sarcofago del nulla e il piacere di un momento diventò quasi morte. «Addio» allora – a labbra strette – e il bigliettaro, in una smorfia ingemmata tra lunghi baffi giallastri, sgranava i pizzini malconci a mo’ di rosario: TITOLO VALEVOLE PER UN VIAGGIO. Mi sentivo un eroe, perché ebbi il coraggio di scrollarmi di dosso il peso del fallimento.
L’alba smangiucchiava già l’ultimo riverbero della luna e le briciole ricadevano sulla mia valigia, gettandole a precipizio sulle scarpe inglesi. Raggiunsi una pensilina rabescata di ghirigori floreali. Il treno tardava. La natura riacquistava le sue forme e così anche le sagome dei passeggeri, ripiegate su sgualcite panche di legno.
A squarciare il silenzio fu la motrice e poi il fischietto del capotreno, che invitava a salire. Mi sedetti e poco dopo il treno riprese la sua marcia, sempre più veloce, in una bufera di movimenti aggrovigliati. Tra silenzi e improvvisi squarci di umanità, la corsa e la monotonia del paesaggio sembravano burlarsi dell’attesa di una sorte migliore. Una lunga galleria preparò l’arrivo. La luce tra le fessure tagliava l’oscurità della cabina e a sprazzi macchiava i visi dei passeggeri, come lucciole in una calda notte d’estate.
Scesi dal treno e la città mi inghiottì.
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