Di Rocco Gumina
Come si sa due indizi non fanno una prova ma qualcosa significano. Negli ultimi tempi possiamo registrare due segnali che ci invitano a prendere in seria considerazione la possibile sterilità dell’annoso dibattito circa la relazione fra cattolici e politica. Si tratta di una provocante ipotesi pronunciata in punta di piedi e supportata da due sintomi che – come la storia insegna – talvolta diventano prove ma in molte altre occasioni restano suggestioni più o meno interessanti e legittime. Il primo indizio viene fuori dalla recente analisi del sondaggista Nando Pagnoncelli la quale attesta, come già avvenuto per le elezioni politiche del 2018, che i cattolici italiani partecipanti alla liturgia domenicale, in occasione della tornata elettorale delle europee, hanno votato più o meno allo stesso modo di chi non si ritiene membro della Chiesa cattolica. In modo assai semplificato, tale dato attesta che nonostante i pronunciamenti generali – ma pur significativi specialmente sulla questione dei migranti e dell’appartenenza necessaria al progetto europeo – di papa Francesco e della Conferenza Episcopale Italiana, i cattolici del Belpaese hanno votato alla stessa stregua di chi cattolico non si professa. Così, sembra che le riflessioni complessive sulla politica non partitica avanzate dal recente magistero ecclesiale non abbiano nessuna ricaduta, o quasi, in termini di maturazione delle coscienze credenti e quindi di orientamento al voto.
Al primo indizio sulla probabile sterilità della discussione sui cattolici e la politica bisogna aggiungerne un altro dalle conseguenze persino maggiori, perciò peggiori, che consiste nell’utilizzo strumentale per finalità elettorali di simboli e linguaggi della religiosità popolare ancora assai radicati fra gli italiani. Infatti, se l’analisi di Pagnoncelli attesta la realtà del cosiddetto “voto cattolico”, l’uso irrituale del rosario e di riferimenti religiosi da parte di Matteo Salvini, il quale ha ricevuto il 33% del voto cattolico italiano alle europee, non solo dimostra il distacco dei credenti dalla riflessione generale sulla politica proposta dagli insegnamenti ecclesiali ma realizza una straordinaria opera di strumentalizzazione di simboli cattolici, perciò a tutti disponibili e accessibili, per fini partitico-elettorali destinati ad un’unica porzione del confronto politico. Questa operazione è un’autentica frapposizione fra l’ordine politico e quello religioso destinata a comprimere il dato della fede popolare nelle secche basse e strumentali di una manovra politica “acchiappa voti”. Inoltre, non occorre di certo la frequentazione con le opere dei più grandi teologi del Novecento e dei Padri della Chiesa, o più modestamente del catechismo per i bambini di recente aggiornato con la versione Youcat for Kids, per comprendere che fra la proposta liberante del vangelo di Cristo Gesù e il programma politico dettato dal ministro dell’interno e vicepremier italiano esiste più di qualche dissonanza che pare utile richiamare almeno su due versanti: il rosario non ha nessun legame tanto con tradizioni culturali nazionaliste, xenofobe, omofobe, pseudo-militaresche quanto con atteggiamenti bonari, rassicuranti o para-identitari; l’utilizzo del messaggio cristiano per battaglie volte ad individuare nemici e oppositori da sconfiggere svuota l’autentica identità di una proposta destinata, comunque, alla crescita di tutti.
Se questi due indizi sulla presunta sterilità del dibattito circa la relazione fra cattolici e politica rappresentano la parte analitico-distruttiva della questione, bisogna pur sempre interrogarsi su cosa possa significare il nesso fra fede e impegno politico al giorno d’oggi. Infatti, nel nostro tempo privo di forti appartenenze, ci sono ancora quasi un terzo di italiani che frequentano la liturgia domenicale e, inoltre, appaiono più frequentemente delle chiocciole dopo la pioggia i politici che si definiscono cattolici. Pertanto, occorre quantomeno un orizzonte comune di senso non soltanto religioso ma anche politico non partitico.
Per il grande teologo e filosofo italo-tedesco Romano Guardini, l’unica differenza che il cristiano possiede rispetto a un non credente è legata ad una peculiare visione del mondo. Il cattolico, infatti, osserva – o almeno dovrebbe – la storia, la società, la politica, la cultura, l’economia, le relazioni a partire dall’evento storico e salvifico della croce e risurrezione di Cristo Gesù. Simile visuale, per Guardini, non può che produrre un autentico capovolgimento dell’ordine di tutte le cose nel senso che la vicenda di Gesù, Dio che diventa uomo condannato al massacro da altri uomini, inverte tutto: ciò che prima sembrava importante poi non lo è più e viceversa. Se l’evento della croce non è nulla di grandioso da un punto di vista umano, i credenti – a partire da questa visione – non possono che trovare vicinanza e condivisione con le periferie umane, sociali, politiche, economiche nelle quali possono ritrovare i tanti crocifissi della storia. Questa particolare visione del mondo genera chiaramente conseguenze sia morali per le singole coscienze sia politiche per l’intera comunità umana. Dunque, non si tratta né di dichiarare in peccato chi sceglie di votare questo o quel partito né di imporre un’opzione politica ma, più semplicemente, di ragionare sugli effetti politico-sociali e culturali della propria aderenza al messaggio cristiano.
Se desideriamo allontanare quanto prima il rischio di una presente e futura sterilità circa il nesso fra cattolici e politica in Italia dobbiamo ripartire dai fondamentali e, quindi, dal cercare di capire quali esiti possa innescare un impegno politico mosso dalla peculiare visione cristiana della storia. L’attuale scenario, a mio avviso, dovrebbe permettere ai credenti, una volta per tutte, sia di seppellire ogni discussione su centrismo e moderatismo che negli ultimi trent’anni hanno fatto sempre rima con affarismo, carrierismo, fissismo; sia di superare l’odierno estremismo gialloverde abile a sedurre tramite seggiola parlamentare singoli, e ormai isolati, esponenti provenienti dal mondo cattolico. Una volta liberato il campo da macchinosi orpelli in grado di garantire – ora a questo ora a quell’altro – un posto vista parlamento o sottogoverno, i cattolici in politica – se prendono per buona la lezione della croce di Cristo – non possono che puntare sulla riforma dell’attuale scenario. Quest’impegno non potrà che prediligere quei temi – per nulla interessanti secondo l’attuale demagogia di governo e dunque davvero periferici – come: scuola, cultura, ambiente, povertà, lavoro, giovani e famiglie, periferie, sanità, inclusione, politica internazionale, welfare e terzo settore, inclusione, giustizia, Mezzogiorno. Probabilmente una rete popolare – composta anche da cattolici – in grado di promuovere un’agenda fondata sulla riforma di questioni così vitali per il presente e il futuro del nostro Paese, potrà tanto rinnovare la politica italiana quanto scongiurare il rischio, assai probabile, della sterilità del dibattito in merito alla relazione fra cattolici e impegno politico.
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