Di Carmelo Sostegno
Il 17 Febbraio di quest’anno, il deputato Alessandro Fusacchia di +Europa sottoponeva all’attenzione del nostro Governo una situazione alquanto particolare: “(…)nell’ipotetico caso di un’uscita del Regno Unito in data anteriore alle elezioni europee, la l. 459/2001 (concernente il voto per corrispondenza, ndr) non troverebbe applicazione”. In altre parole, nel caso in esame, a differenza degli italiani residenti presso uno Stato membro, i residenti in un paese non appartenente all’Ue, per votare, avrebbero avuto una duplice possibilità di scelta: ritornare in Italia o non votare.
Di là dalla decretazione d’urgenza dell’esecutivo, che per le sue caratteristiche avrebbe permesso di risolvere tranquillamente la questione, la riflessione si fa certamente più ampia e rivela quello che ad oggi è un punto annoso: l’ambiguità della cittadinanza europea.
La decisione di trasferirsi da uno Stato membro all’altro è una scelta non poi così difficile da prendere, tuttavia non priva di particolari conseguenze. Così, Costanza Margiotta in “Cittadinanza europea. Istruzioni per l’uso”, ne individua una e precisa, sulla quale ritengo ci si debba soffermare: “Quando attraversiamo liberamente i confini e otteniamo il diritto di soggiornare in un altro Stato, [la cittadinanza europea] diventa, grazie al principio di non-discriminazione, un quasi cittadino di quello nazionale [perché comunque] privo del diritto di voto alle politiche nazionali, ma solo quello attivo e passivo alle comunali. Per il cittadino stanziale, che non si sposta dal paese di origine, la percezione rimane confinata alle elezioni per il Parlamento europeo, peraltro vissute come un’occasione per promuovere o bocciare i governi nazionali in carica”.
Secondo i dati Eurostat 2018 sono 16 milioni i cittadini mobili europei che hanno una percezione “dinamica” dell’Europa. Poca cosa rispetto ai 503 e passa milioni di cittadini, certo, ma quanto basta per rivelare il profondo limite delle scelte normative e politiche europee. Ad esempio,e soprattutto alla luce dei dati raccolti dallo Staff Working dell’Ue, le differenti pratiche adottate dagli Stati membri per le amministrative condizionano la partecipazione dei cittadini. Essa è maggiore in quelle realtà locali in cui è disposta l’iscrizioni automatica alle liste già al momento della registrazione della residenza; si palesa un preoccupante astensionismo, invece, quando l’iscrizione dipende dalla previa istanza del singolo cittadino, con le difficoltà burocratiche che ne derivano.
Più volte, e in particolare nel 2014, la Commissione, tanto criticata per il disinteresse verso i propri cittadini, con apposita Raccomandazione (2014/53/EU) ha invitato gli Stati membri a instaurare una rete di comunicazione e condivisione tra i rispettivi ordinamenti in quanto inevitabile. Ciò detto, cos’è stato fatto al riguardo?
Il punto è solo apparentemente afflitto dalla logica delle contingenze, ma ritengo sia esso sempre attuale, preciso, decisivo: se in Europa c’è un limite è proprio l’assenza di armonizzazione in tanti settori e in settori chiave come la normativa sulla cittadinanza. Quest’ultima, va ricordato, ha una natura duale, “non sostituisce ma integra” le singole cittadinanze nazionali, permette speciali libertà, la titolarità di importanti diritti, ma è una cittadinanza i cui doveri, come sostenuto puntualmente da Roberto Adam, sono difficilmente individuabili e non riferibili a un corretto, disciplinato e unitario esercizio. Se politicamente e giuridicamente – e culturalmente, a menzione di una riflessione ben più ampia sull’esistenza di un popolo europeo che in questa sede non può trovare spazio – inafferrabile, cos’è la cittadinanza europea?
Ci sono stati alcuni, tantissimi casi in cui la stessa Corte di Giustizia non ha potuto fare a meno di ribadire la competenza esclusiva sei singoli Stati (caso Micheletti fra i tanti), così rinunciando a quell’attività giurisprudenziale creatrice rivelatasi, non poche volte, salvifica. Se uno status civitatis che dovrebbe essere uguale per tutti ha origini e tempi diversi, da dove partire per quell’Ue politica di cui si parla in questi giorni? La forte frammentazione per dipendenze nazionali spiega anche l’acceso dibattito sul ius soli e sui pericolosi test di integrazione cui sono sottoposti i richiedenti la cittadinanza che trascinano la cittadinanza europea ad logica troppo nazionale, non propriamente inclusiva, e a cui gli Stati europei sono purtroppo assai affezionati.
Dopo queste elezioni, la speranza è ancora una volta quella di una cittadinanza dal tono più politico, giuridicamente davvero unica, e non stanca ricordarlo quando l’Europa potrebbe salvare, una volta ancora, se stessa dalle tensioni, dalla solitudine, dai colori delle bandiere in mezzo al mare quando garriscono severe, al vento.
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