di Ivan Ariosto
«C’è un’alba indicibile in una vecchiaia felice» scrisse Victor Hugo, ma in realtà non di rado la caparbietà dello scorrere del tempo riesce ad erodere anche ciò che sembrerebbe intangibile. E ciò vale anche per la nobile arte del cinema.
Se è vero, infatti, che i piccoli granelli del tempo che precipitano giù nella clessidra dell’esistenza finiscono spesso per consumare le vecchie pellicole, rendendone imprecisi i fotogrammi, è vero anche che – in alcuni casi – ciò che viene usurato è in realtà il loro prestigio nel firmamento della cinematografia.
Tuttavia, una tale sorte non riguarda certamente “I quattrocento colpi”, capolavoro d’esordio di François Truffaut, ormai divenuto uno dei simboli della Nouvelle vague.
Nonostante i sessant’anni trascorsi dalla prima proiezione al Festival di Cannes del 1959 – in cui Truffaut venne premiato per la miglior regia – “I quattrocento colpi” resta un film attualissimo.

Francois Truffaut
Il tratto innovativo risiede nell’idea del regista, all’epoca ventisettenne, di porre al centro della scena un ragazzino per raccontare l’infanzia – e soprattutto la propria infanzia complicata ed infelice – senza sentimentalismi e senza retorica, con un tono quasi documentaristico.
Il protagonista tredicenne Antoine (interpretato da Jean-Pierre Leau, scelto per l’incredibile somiglianza estetica allo stesso Truffaut e che divenne presto l’alter ego del regista, tornando ad interpretare lo stesso personaggio in altri suoi film) trascorre le sue giornate passando da un disavventura all’altra, di fronte ad una scuola che non lo capisce, di fronte a dei genitori che non gli danno l’affetto di cui avrebbe bisogno, di fronte ad una società che sembra solo capace di reprimere, di chiudere l’individuo entro schemi ottusi. Lo spettatore finisce per incrociare lo sguardo di un bambino che “fa il diavolo a quattro” (non a caso il titolo originario della pellicola è proprio “Faire les quatre-cents coups”, un modo di dire francese equivalente all’italiano “fare il diavolo a quattro” o “combinarne di tutti i colori”) per cercare una propria strada in un mondo che sembra non curarsi dei bisogni dei più piccoli.
A proposito del film, lo stesso regista spiegò che era stato mosso dall’idea di ritrarre l’adolescenza, non come appare agli occhi degli adulti animati da malinconica nostalgia, ma come appare ai bambini, cioè come un momento da superare. «Se c’è una tesi nel mio film – precisò Truffaut – è questa: l’adolescenza lascia un buon ricordo solo negli adulti che hanno una cattiva memoria». È un film drammatico, sotto una certa ottica, perché mostra che se è vero che l’adolescenza è definita come l’età delle scoperte, è vero anche che la prima di esse è la scoperta dell’ingiustizia, della doppia morale che connota l’età adulta.
Ad accrescerne il prestigio contribuisce anche l’incantevole cornice in cui si svolgono le vicende, quella Parigi ancora annerita dalle ceneri della Seconda guerra mondiale in cui il piccolo Antoine trascorre i suoi giorni, correndo dalla sua casa all’incrocio fra Rue Clauzel e Rue Henry-Monnier, vicino Place Gustave Toudouze, fino a quella del suo amico Renè in Rue Pierre-Fontaine, passando per una Place de Clichy affollatissima di piccioni, pronti a librarsi in aria formando un arcobaleno plumbeo sopra i platani dei boulevards.
Dopo più di mezzo secolo, “I quattrocento colpi” resta un film moderno, perché non si limita a raccontare l’infanzia difficile di un bambino, ma racconta come si può crescere senza seguire l’esempio degli adulti, cercando una strada diversa, cercando una strada propria.
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