di Ivan Ariosto
Uno dei quadri più iconici degli ultimi vent’anni è il celebre Skrik (in italiano “L’urlo”), dipinto intorno al 1893 da colui che i critici definiscono tutt’ora come “il più espressionista tra gli espressionisti”, il norvegese Edvard Munch.
L’opera, divenuta oggi una vera e propria icona (al punto tale da figurare addirittura tra le gif di WhatsApp), è stata spesso utilizzata dai mass media come sinonimo di disperazione davanti ad eventi tragici (come l’11 settembre) o come simbolo di incredulità dinanzi ai colpi di scena che la storia contemporanea ci ha ultimamente riservato (vedi l’elezione di Trump negli Stati Uniti o l’esito del referendum per la Brexit). Tutto ciò ha contribuito, oltre che a rivalutare il suo pregio artistico, a far penetrare l’Urlo nelle viscere della cultura di massa.
Il quotidiano britannico The Guardian ha peraltro evidenziato come, a differenza di altri capolavori, il dipinto rappresenti alla perfezione lo spirito del tempo (quello che i filosofi tedeschi chiamano Zeitgeist), ovvero la crisi, lo spaesamento, il senso di vuoto proprio dell’uomo moderno, dal tardo Novecento ai giorni nostri.
L’urlo del protagonista (la cui sagoma sinuosa fu forse ispirata da una mummia peruviana che Munch vide nel 1889 all’Expo di Parigi) sarebbe, insomma, il grido d’aiuto dell’individuo contemporaneo.
A mettere in crisi questa ormai storica interpretazione dell’opera, ci ha pensato improvvisamente il British Museum che, in occasione dell’inaugurazione della mostra intitolata “Edvard Munch: Love and Agst” dedicata allo stesso artista norvegese (a disposizione dei visitatori a partire da oggi fino al 21 luglio), ne ha ipotizzato – tramite un post nel suo profilo Instagram – una nuova chiave di lettura.
Dall’esame di una inedita litografia in bianco e nero, la ricercatrice britannica Giulia Bartrum ha evidenziato come si intuisca il disegno di un’onda sonora che travolge il protagonista del quadro.
Secondo l’esperta, ciò indicherebbe che l’opera non rappresenta in realtà una figura umana che emette un suono, ma «un essere umano che sta sentendo qualcosa, che provenga dalla sua stessa mente o meno».
L’individuo che appare all’osservatore, lasciandosi alle spalle i dorsi deformati della collina di Ekberg che sormonta la città di Oslo, secondo questa ipotesi non starebbe urlando, ma ascoltando il grido lacerante del mondo circondante, la cui intensità lo costringe a tapparsi le orecchie con le mani. Ad urlare, dunque, sarebbe in realtà il paesaggio, il cielo e tutto ciò che attornia il soggetto in primo piano.
Tale ricostruzione troverebbe conferma – secondo la Bartrum – in una pagina del diario dell’artista datata 22 gennaio 1892, in cui egli, durante una passeggiata nei pressi di un fiordo vicino alla capitale norvegese, scrisse di aver «sentito un grande urlo in tutta la natura».
Ciò che è certo, è che “L’urlo” di Munch resta uno dei quadri più ambigui nell’immaginario collettivo, e il dibattito interpretativo che scaturirà da questi recenti studi, non potrà che aumentarne il fascino.
Questo sentimento di malessere non e esclusivo ne dello sfondo, ne dell’animo di Munch: e infatti distintivo del pessimismo