Di Leonardo Pastorello

C’era una volta la cultura pagana, trasformata oggi in una nuova forma di religiosità, ossia <<la religione dei consumi>>, come direbbe George Ritzer. Le divinità del politeismo greco-romano presentano nella nostra contemporaneità una ritualità segnata dalla produzione, dalla crescita e dal nuovo ‘misticismo’ del consumo. Questo nuovo modello del sacro ha spazzato via quel dionisismo vitale che ci ha condotti alla democrazia, al teatro e al pensiero speculativo.
Com’è noto, il <<dionisiaco>> è quel concetto teorizzato dal giovane Nietzsche ne La nascita della tragedia (1872), la celebre opera polemica che rovescia l’immagine tradizionale del mondo antico – da sempre concepito come una realtà pienamente armoniosa -, inaugurando una svolta culturale europea che dà adito al dominio dell’irrazionale. Nietzsche dimostra che la tragedia greca, in particolare quella di Eschilo e Sofocle, è la sintesi dello spirito apollineo, ossia quell’elemento di razionalità ed equilibrio, con lo spirito dionisiaco, che è invece irrazionalità, violenza, follia e crudeltà; nella tragedia, il coro è espressione del dionisiaco, ossia della musica, del rapimento dell’uomo in cui qualsiasi forma di individualità è annullata, ma al tempo stesso è enfatizzata la totale fusione con la natura, con la tragicità e misteriosità delle vicende umane. Nelle tragedie, infatti, è particolare il rapporto che vi è fra gli dei e gli uomini e il destino a dir poco drammatico a cui questi ultimi sono soggetti. Sembra che la tragedia abbia delle origini strettamente collegate con la venerazione di Dioniso. I personaggi erano travestiti da capri e da ciò dovrebbe derivare la parola <<tragedia>>, che presenta un’etimologia molto curiosa, rintracciabile con i termini tràgos (capro) e odé (canto). Secondo le mitologie, Dioniso assume anche le sembianze della capra, infatti uno dei suoi appellativi è quello di «Capretto». Il dio dell’ebbrezza è venerato nelle città di Atene e di Ermione come Colui dalla nera pelle e caprina, poiché secondo un’antica leggenda, Zeus trasforma il figlio Dioniso in capretta, al fine di proteggerlo dalla collera di Era.
Ma cosa ci è rimasto oggi dell’antico dionisismo? Come si potrebbe recuperare una sana – e dionisiaca – socievolezza nella nuova era del digitale e dell’estrema libertà individuale? Proviamo insieme a fare un breve viaggio nella mitologia.

Secondo le narrazioni di Nonno di Panopoli, ultimo poeta dell’epica ellenica, Dioniso diventa il dio dell’ebrezza grazie all’amore provato nei confronti del giovane satiro Ampelo (nome che deriva dal greco àmpelos, che significa ”vite”). Sopraffatto dal timore di perdere il suo amato, Dioniso raccomanda ad Ampelo di star lontano dalle corna del <<toro crudele>>; ma un giorno, la dea Ate – la divinità dell’errore – convince Ampelo di coccolare un toro e di ornare il suo collo con ghiande, narcisi e gigli, per poi cavalcarlo. Caduto in tentazione, Ampelo muore ucciso dalle corna del toro: per Dioniso, ciò è una tragedia. Il dio del riso, per la prima volta addolorato, cade in un pianto incontrollabile. Dioniso non considera neanche le consolazioni vane di Eros, che lo esorta a innamorarsi nuovamente, ma il dio dell’ebrezza, improvvisamente, si ritrova nella condizione di essere l’artefice di un vero e proprio miracolo: le lacrime del dio, unite al sangue di Ampelo, si trasformano in un nettare divino che riplasma la memoria. Dioniso beve quel nettare, usando un corno taurino come coppa, e da quel momento ritrova la sua felicità grazie all’ebbrezza.

In questa narrazione sembra evidente il forte contrasto tra la naturale virilità e l’effettuale vulnerabilità di Dioniso, il quale non riesce a tirarsi indietro di fronte ai suoi sentimenti. Se attualizzassimo il mito di Dioniso e Ampelo, potremmo affermare che in una società fondata su un’economia in cui i numeri valgono più delle parole l’ebbrezza dionisiaca, forse, risulta essere priva di qualsiasi importanza. Nella modernità estetizzante in cui viviamo, la finzione prende il posto dell’autenticità: ciò fa sì che vi sia un’inevitabile crisi dello spirito di comunità da cui, probabilmente, dovremmo ripartire in politica, ma soprattutto nel nostro senso civico. In conclusione, mi chiedo: come potremmo ribaltare questo ingombrante nichilismo? Potremmo ancora oggi educarci ai sentimenti come i pagani Greci per mezzo del mito?