Di Federico Sardo
Mercoledì 20 marzo 2019, il Senato ha votato sull’autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno Salvini per il ben noto caso Diciotti. Votazione il cui esito risultava abbastanza scontato, visto che attraverso la decisione online del c.d. “Popolo sovrano” i senatori pentastellati, come i loro colleghi deputati, si sono furbescamente assolti da qualsiasi tipo di responsabilità politica.
E’ il caso dunque di astenersi un momento dalla maestosa caratura morale dei nostri parlamentari e provare a capire, alla luce della disciplina vigente, che cosa avrebbe deciso un Paese normale in cui il principio di legalità non è solo una nozione da recitare agli esami di giurisprudenza.
Doverose dunque sono delle brevi premesse sulle normativa che regola il soccorso in mare.
Come ha avuto modo di precisare lo stesso Tribunale dei Ministri, la materia dei soccorsi in mare di carattere internazionale è disciplinata, a livello di normativa primaria, dalla L. n. 147/1989 che ratifica nel nostro ordinamento la Convenzione di Amburgo, nonché, a livello secondario, dalle linee guida adottate con la Risoluzione del Comitato Marittimo per la Sicurezza n. 167-78 e dalla direttiva della Guardia Costiera SOP 009/15. Quest’ultima merita la nostra attenzione.
Dalla stessa si evince che l’individuazione del place of safety(POS), il luogo in cui devono
essere fatte sbarcare le persone soccorse, è di competenza del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione, ossia uno dei dicasteri del Ministero dell’Interno.
Si tratta di una procedura nella quale l’autorità amministrativa non ha alcuna discrezionalità sulla decisione di autorizzare o negare lo sbarco in un POS(essendo tale presupposto già a monte
disciplinato dalla legge sul soccorso marittimo). La potestà decisionale dell’amministrazione
riguarda solo il quamodo, ossia individuare il punto di sbarco più confacente al caso concreto.
Che cosa fa, dunque, il nostro Matteo? Il 20 agosto, mentre la Diciotti attraccava a
Catania(designata POS), in maniera del tutto arbitraria ordina al Capitano di non procedere allo sbarco, il quale si completerà soltanto il 26 agosto.
Qui si arriva al nucleo essenziale del discorso: può un Ministro porre il proprio veto o in qualsiasi modo influenzare un procedimento amministrativo di competenza dei suoi dirigenti? Assolutamente no.
Forse risulta naive affermarlo, ma nel nostro ordinamento vige il principio di separazione tra le
funzioni di indirizzo politico-amministrativo proprie degli organi politici e l’attività amministrativa in senso stretto, di competenza invece dei funzionari pubblici. A norma dell’art. 4 I comma d.lgs n.165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti.” mentre “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, […] essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività
amministrativa, della gestione e dei relativi risultati” (art. 4 II comma d.lgs n. 165/2001).
Da tempo, infatti, nella stragrande maggioranza delle amministrazioni dello Stato non esiste più un rapporto gerarchico tra Ministro ed i funzionari dei suoi dipartimenti. E ciò con l’evidente ratio di evitare che un politico, le cui competenze tecnico-specifiche rasentano quelle di un sasso analfabeta, possa prendere decisioni in palese contrasto con la legge. A questo dovrebbero supplire i pubblici dipendenti, i quali, vincitori di concorsi pubblici atti a selezionare i migliori, hanno invece la qualifica per adottare provvedimenti in conformità al norme vigenti, al fine di garantire che l’attività amministrativa persegua i fini determinati dalla legge e sia retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza (art. 1 l. 241/1990).
Se non si potesse essere più chiari di così, è bene ricordare che la nostra legislazione, in un più unico che raro caso di lucidità espositiva, espressamente afferma che: “Il Ministro non può
revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di
competenza dei dirigenti. In caso di inerzia o ritardo il Ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti.” (art. 14 III comma d.lgs n.165/2001).
Nei fatti della Diciotti, é avvenuto l’esatto contrario di quanto prescritto dalla norma citata. Un Ministro della Repubblica ha palesemente violato la legge abusando della propria qualifica, ma questo ai nostri ” honesti” cinque stelle non pare importare nulla, i quali probabilmente non sono(o sono in malafede) a conoscenza del fatto che alla rule of law dovrebbero sottostare sia i pubblici poteri che il “Popolo sovrano”; non sembra importare nemmeno ai dirigenti del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione, i quali avrebbero dovuto
rispondere soltanto alla Legge e mandare a quel paese il loro Ministro; non sembra importare nulla neanche alla stampa generalista, la quale non trova tempo per citare tre articoli legge in croce per informare l’opinione pubblica.
La verità desolante, è che all’italiano non frega
una bega del rispetto delle regole. Ed è per questo che i nostri politici possano vergognosamente continuare nell’impunità a violare la legge, oggi come in passato. Condotte, tuttavia, che qualcuno non sta lasciando passare inosservato.
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