Di Ivan Ariosto
Nella seconda metà dell’ottocento, nello Stato americano del Massachusetts, veniva inaugurato il primo college americano aperto alle donne e venivano inventati il basket e la pallavolo. Nello stesso periodo, un intellettuale poco conosciuto, di nome Henry David Thoreau, dava alla luce un saggio dal titolo Resistance to Civil Government, invitando – per la prima volta – alla disobbedienza civile.
Conoscere le origini di un fenomeno così rilevante per la società civile di tutto il mondo, è fondamentale per comprendere appieno la sua portata innovatrice.
Non può essere un caso, infatti, che la forma di protesta pacifica per eccellenza, baluardo di personaggi quali Gandhi e Martin Luther King, sia nata nello Stato americano leader nei campi dell’istruzione superiore, della scienza medica, delle biotecnologie e dei servizi finanziari. Quasi a dimostrare che una forma di dissenso contro il sistema talmente evoluta da non richiedere spargimenti di sangue, non potesse nascere in altro luogo se non nella parte dell’emisfero più evoluta ed istruita.
Ma, innanzitutto, cos’è la disobbedienza civile? Si tratta di un concetto dai contorni difficilmente definibili con precisione, ma in generale può dirsi che sia una forma di reazione del cittadino dinanzi all’ingiustizia della legge, che si manifesta attraverso atti pacifici di varia natura.
Thoreau, per protestare contro il governo statunitense dell’epoca che ammetteva la schiavitù, si rifiutò di pagare le tasse, e fu arrestato. Proprio per spiegare le ragioni di ciò, scrisse il saggio di cui sopra, in cui affermò che a leggi ingiuste deve contrapporsi la resistenza passiva dell’individuo, a prescindere dalle conseguenze.
A precisarne i contorni soccorre un saggio della filosofa tedesca Hannah Arendt, in cui la disobbedienza civile viene ritenuta necessaria, purché sia atto collettivo, fondato su valori comuni e non individuali, scaturente da persone consapevoli delle proprie scelte e delle possibili conseguenze connesse.
Icona della disobbedienza civile è il “Rivoltoso Solitario”, un ragazzino cinese che a Pechino, durante la protesta di piazza Tienanmen – alla fine degli anni ottanta – sbarrò la strada ai carri armati del Governo cinese con in mano solo delle buste della spesa.
Nell’attualità politica del nostro Paese, il tema è divenuto quanto mai attuale alla luce dei recenti richiami da parte di intellettuali del calibro di Gustavo Zagrebelsky e Roberto Esposito, relativi ad alcuni provvedimenti annunciati dal Governo in carica.
Ma a prima vista è lecito chiedersi se davvero oggi la situazione politica del nostro Paese sia in qualche modo paragonabile all’America razzista di Martin Luther King, all’India di Gandhi o al Massachusetts schiavista di Thoreau.
Probabilmente no, o forse non ancora, ma di certo la disobbedienza civile può diventare un utile strumento anche in quei casi definiti da Tocqueville di «dittatura della maggioranza», o in quelle ipotesi – teorizzate dal filosofo politico John Rawls – in cui ci si trovi dinanzi a leggi contrarie al sentimento nazionale.
Il paradigma dello Stato moderno impone il rispetto di limiti reciproci da parte dei cittadini e dei governi; cosicché, al momento in cui alle politiche concrete di integrazione proprie di un Paese democraticamente evoluto si antepone la costruzione di inutili muri, e la libertà di stampa e l’esercizio del diritto di critica vengono minacciati da “leggi-bavaglio”, la disobbedienza civile – pur implicando una violazione di legge – diviene utile strumento di tutela dei valori fondamentali costituzionalmente garantiti.
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