Di Ivan Ariosto

Il documentario “Klimt e Schiele – Eros e Psiche” del regista Michele Mally, distribuito da Nexo Digital, uscito nelle sale lo scorso ottobre, ha riscosso un ampio successo di pubblico, non solo tra la critica. E forse uno dei principali motivi è proprio il fascino che ancora oggi esercitano i due artisti austriaci, a cento anni esatti dalla loro morte.

Negli stessi anni in cui Freud mette a nudo la psiche umana attraverso la psicanalisi, Egon Schiele mette a nudo il corpo e le sue contraddizioni più profonde, divenendo protagonista dell’Espressionismo austriaco e, più in generale, della corrente che pochi anni dopo la sua morte diverrà nota come Esistenzialismo.

Quando affitta un piccolo studio a Vienna, nel quartiere periferico di Meidling, ha solo vent’anni, ha già abbandonato l’accademia alla quale si era iscritto nel 1906 ed ha già conosciuto Klimt. Lì nel suo studio si isola in una volontaria reclusione, manifestando con una serie di inquietanti autoritratti la sua innata tendenza ad una tormentosa autoanalisi. L’erotismo di Schiele è dominato dal fascino del caos, un corpo si fonde all’altro travolto da linee irregolari e spigolose. La mancanza di uno sfondo reale dà vita ad un’ambientazione quasi onirica in cui i soggetti giacciono, contorcendosi nel nulla. Non c’è traccia dei letti disfatti di Toulouse-Lautrec, le figure semplicemente “stanno”, in una dimensione parallela fatta di colori innaturali ed evocativi. I corpi di ragazze esili e ammalianti sono immersi nel divenire della putrefazione, sfioriscono, sono immortalati nell’atto dell’appassire, rendendosi così ancora più affascinanti agli occhi di chi osserva.

Nei suoi paesaggi, gli alberi di autunno e di inverno sembrano viventi già morti, le case si riducono ad allucinanti rifugi con finestre spalancate sul nulla, che si aggrappano le une alle altre, dominate da muti campanili. E perfino i fiori si denudano, come il suo Girasole (1909-1910), che è al contempo dritto e appassito, “und lacht und weint”, ride e piange insieme.

In questo modo, l’enigmatico artista viennese non fa altro che rendere su tela l’analisi di sé stessi: è impossibile – per Schiele – guardare la propria figura esteriore senza vedere riflessa allo stesso tempo la propria interiorità. Le linee contorte del corpo per esprimere i tormenti dell’anima.